domenica 30 marzo 2008

IL FASCISMO E IL BRUTTO TEMPO

Mi è tornata in mente un frase che ha scritto Eco in una bustina di Minerva, non ricordo a proposito di cosa; era un'osservazione sui suoi genitori e sul loro rapporto con il regime fascista, sotto il quale lo scrittore è nato. Eco scrive che i suoi genitori considerarono il fascismo, insieme a moltre altre persone, come un fenomeno meteorologico. Credo che con questa metafora intendesse assimilarlo, cioè, ad un fatto dirompente ma necessariamente passeggero, al quale volenti o nolenti occorre adattarsi, certi e fiduciosi, prima o poi, di uscirne fuori.

Io all'epoca del fascismo non c'ero, come molti altri. Ne ho solo letto nei libri, e poco ne ho sentito parlare in modo diretto, perchè purtroppo ho perso i nonni quando non avevo sufficiente ragione ed interesse per parlarne, e quando ne ho avuti, le nonne rimaste non avevano loro sufficiente ragione nè interesse per farlo. Come molti anziani, più che il fascismo, sembrano rammentare la guerra, ed anch'essa come un fenomeno inevitabile quanto passaggero, qualcosa da farci i conti per forza, ma la cui origine sta al di fuori della volontà delle persone, che spesso, più che altro, la subiscono.
La sensazione che ho tratto dai libri e dai racconti, e che non vuole essere neanche un opinione ben formulata ma piuttosto la sintesi di alcuni pensieri rammendati insieme, è che il regime fascista, come tutti i regimi politici più o meno totalitari, avesse una faccia duplice: da un lato reprimeva chi si ribellava o non condivideva le sue istanze, con violenza, sadismo e ferocia, e gli esempi, qualunque cosa pensi quel mentecatto di Berlusconi, sono migliaia; dall'altro lato, come ogni regime, premiava, in modo più o meno consistente, i sui adepti, più o meno fedeli.
Il fascismo fu attivo nello sviluppare un'amministrazione pubblica, il cui accesso era ovviamente vincolato all'adesione al partito. Le istituzioni educative (tranne, almeno in parte, le Università, di cui già si capiva l'inutilità ai fini dello stabilire un'egemonia culturale, che più che altro passa, oggi come allora, attraverso i mass-media) erano totalmente permeate dell'ideologia del credo fascista. Il fascio era il segno che occorreva portare per muversi almeno nella maggior parte delle zone di un ambiente sociale totalmente impregnato dalla sua ideologia. A seconda di quanto in alto uno volesse arrivare, era richiesta e quindi premiata un'adesione alle idee ed ai valori che, come nel caso anche della Germania nazista o della Russia sovietica, poteva essere anche un adesione molto farisaica e falsa. Erano quindi sì premiati lo zelo legato all'ostentazione, spesso indecente, di una fede, ma è vero anche che in molti casi la massima adesione consisteva, eventualmente, alla partecipazione entusiastica alle artificiose cerimonie organizzate dalla sapiente mente propagandistica del regime, un adesione popolare scandita al ritmo di marce e marcette, segnata dallo sventolìo di bandiere e bandierine, generalmente rigida e, sopratutto a posteriori, grottesca.

Più recentemente, il problema che storiograficamente e politicamente si è posto è stata la scoperta, l'ammissione o il riconoscimento del ruolo attivo che molti Italiani hanno avuto nel regime. Oppure, si può dire, se non c'è stato consenso attivo, di certo non c'è stata opposizione. In genere si è spiegato questa mancanza di opposizione con un deficit di coscienza politica democratica, poiché il processo di inclusione delle masse nella vita dello Stato si è realizzato compiutamente soltanto dopo la guerra, con la Costituzione e la Repubblica. Ma più ancora, forse, nel voler prendere le distanze dalla seconda guerra mondiale come fonte dei mali assoluti, e dal fascismo come una delle sue cause scatenanti, si è dimenticato o voluto dimenticare che non molti si sono opposti ad esso. Ma secondo me la vera domanda non è tanto se la gente ha aderito e quanta gente ha aderito, quanto invece come e perché, quella che lo ha fatto, lo ha fatto.

Il problema infatti non è solo che non veniva lasciata scelta, in senso coercitivo. C'era innanzitutto una macchina di indottrinamento che permeava le istituzioni, soprattutto quelle responsabili dell'educazione; mi ricordo la storia di un'anziana senese che ricordava come da ragazzina le suorine della scuola, sempre tanto buone loro, insegnavano alle alunne che il Duce era l'uomo della provvidenza che avrebbe salvato l'Italia dai comunisti; dal loro punto di vista era vero, tra l'altro, perchè se davvero i comunisti e i socialisti avesero fatto come credevano, la pacchia dei preti era finita, AL LAVORO TUTTI!
Oltre alla violenza, alla propaganda ed alla dottrina, non c'era scelta nel senso che a meno che uno non avesse voluto rischiare la vita, per lavorare e mandare avanti la baracca, era costretto a dimostrare obbedienza e fede. Al limite, uno poteva farsi i cazzi suoi, forse, come Nuto de La luna e i falò di Pavese, ma non tutti e ovunque. Il problema quindi non è tanto, o soltanto, prendere coscienza della repressione violenta operata dal regime, ma anche di ciò che esso ha concesso in cambio dell'obbedienza. In effetti oggi sembra che non si possa più andare in giro a dire che sotto il fascismo tutto andava male -lo sanno tutti, si stava meglio quando si stava peggio- ma forse bisognerebbe andare in giro a dire che un popolo che si sottomette al potente di turno accettando una gerarchia di idee e di valori, qualunque essa sia, e sapendo di farlo per riuscire a campare in modo più o meno decente, è un popolo vile e indegno. Bisognerebbe condannare, più che i Repubblichini -se uno è scemo è scemo, non è che si può andare ad accorciare il cazzo a tutti i cannibali dal Congo- chi si è limitato ad aprire l'ombrello mentre pioveva. Avrebbe dovuto invece andare a prendere Dio per le corna per obbligarlo a far smettere di piovere?
Questo non lo so; però credo che se c'è qualcosa che manca oggi non è tanto la coscenza che la repressione e la violenza, militare e politica, o la guerra, siano cose sbagliate e negative: non è questo il potere fascista da combattere, o non sempre, almeno.
Credo che una cosa che manca è il coraggio di ribellarsi ai sistemi di privilegi e di acessi preferenziali, politici, familiari, mafiosi, quali che siano. Credo che se manca qualcosa che la Resistenza poteva insegnare, non è tanto che bisogna armarsi e combattere -almeno non letteralmente o non ora- ma che bisogna andare tanto contro i potenti quanto contro coloro che accettano queste forme di sottomissione e di potere.

Non solo credo ci si debba opporre a chi incarna o gestisce queste forme di potere, ma sempre di più mi sento di voler mandare in culo anche chi le usa a proprio favore, contro chi ne accetta le logiche per trarre anche un minimo di vantaggio. Intendo dire, per esempio, che bisogna ribellarsi a coloro che rivendicano l'appartenenza ad una nazione, o ad una religione, o un colore della pelle, come condizioni necessarie per accedere al riconoscimento sociale ed ai servizi, ad esempio.
Ma ancora di più, bisognerebbe sputare in faccia a tutti quei venticinquenni che mettono giudizio e capiscono che l'Italia è così e che bisogna legarsi ai potenti per campare; a quelli che fanno le tessere dei partiti per fare carriera dentro le banche, le istituzioni, la Rai, i dottorati, o quant'altro. Bisognerebbe sputare in faccia alle ragazze che vanno agli esami scollate "perché quello è un porco e così prendo di più". Sputare in faccia, quindi, a tutti quelli che imparano a muoversi dentro i sistemi di potere che regnano ovunque per ottenerne i privilegi.
Comunque, fuor di metafora, vorrei sputare in faccia, e lo vorrei fare personalmente -con una generosa dose di catarro appena raschiato via dal palato con quel rumore caratteristico ed inconfondibile- ai ragazzi che vedo ai comizi del Piddièlle o del Piddì, quei giovani sfigati che cantano accanto al potente di turno, e lo bladiscono, con anche i genitori là sotto a fargli i complimenti perché hanno toccato e stretto la mano abberlusconi o a Wel-trony (: ci sono molti paragony). Bravi, complimenti. Se c'è una cosa tipica dell'Italia Berlusconiana che questa ha in comune con il fascismo, e che rappresenta la loro comune natura di regime nel senso più bieco sebbene meno tetro del termine, è la naturale passione e propensione per questa forma di vita sociale, basata sull'elogio ed il premio riconosciuti a chi sopravvive, costi quel che costi, in queste società da basso impero.

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