giovedì 22 gennaio 2009

IL PATRIOTTISMO E' L'ULTIMO RIFUGIO DI UN FARABUTTO

“Il patriottismo è l’ultimo rifugio di un farabutto”,
S. Johnson.

“Ci serve gente del tuo stampo, capace di uccidere in modo animalesco. Se tutto va bene, finite sempre con l’essere chiamati eroi.”
V. Evangelisti, Black Flag.

A poche persone l’aforisma di Samuel Johnson, ripreso da Kubrick in Orizzonti di Gloria, o anche la citazione di Black Flag, calzano a pennello quanto a Zeljko Raznatovic, la famigerata tigre Arkan. Raznatovic è uno di quei personaggi in cui sembra esserci un’innata vocazione, quasi mistica, alla violenza ed all’arricchimento, fin dalla giovane età. L’uomo è uno dei tanti che si muovono in quella zona grigia tra crimine e politica in cui operano i servizi segreti: Raznatovic è infatti un famigerato rapinatore di banche conosciuto in tutta Europa, che mette a segno il suo primo colpo in Italia, a Milano, nel 1974. Nel frattempo però lavora anche per la polizia segreta jugoslava, che in cambio di un sostegno logistico (passaporti falsi, armi, denaro, barbe finte) gli commissiona diverse operazioni ai danni di jugoslavi emigrati e poco graditi al regime.
Negli anni ’80 fa ritorno a Belgrado dopo aver accumulato una discreta fortuna, e comincia a costruire la sua brillante carriera di mafiosetto locale. Diventa gestore di una discoteca, di una pasticceria (da cui si dice che ogni tanto provenisse qualche sparo di troppo), nonché capo degli ultras della Stella Rossa di Belgrado, mentre nel tempo libero non disdegna qualche omicidio su commissione. La parabola della vita di Raznatovic si sarebbe anche potuta concludere a Belgrado, nella condizione di relativamente stabile prosperità garantitagli dalle sue numerose attività. Una specie di Tony Montana nei Balcani, un pò Scarface un po’ Gatto Nero Gatto Bianco. Ma il destino aveva altri piani per la futura Tigre e di lì a poco la storia di un farabutto come molti altri si sarebbe trasformata in qualcosa di più grande.
E’ il 1990 e la Storia con la esse maiuscola sta per passare di nuovo dai Balcani dando vita alla feroce guerra etnico-nazionalistica che conosciamo, ma circa un anno prima che cominciassero gli scontri militari tra serbi e croati, la Storia, appunto, decide di annunciarsi in un occasione particolare: una partita del campionato di calcio un tantino tesa, tra Stella Rossa di Belgrado e Dinamo Zagabria. E’ il 13 Maggio del 1990. Per chi si ricorda del pacifico Zvonimir Boban, basti dire che l’allora capitano della formazione di Zagabria spaccò la mascella ad un poliziotto con una ginocchiata. Il clima è infuocato: lo stadio Maksimir diviene teatro di accaniti scontri tra le due tifoserie, aizzate dalla stampa e dall’opinione pubblica che si lascia coinvolgere ogni giorno di più dalla propaganda politica nelle campagne xenofobe e ultranazionaliste di Tudman dalla parte croata e di Milosevic da quella serba. Ancora oggi, fuori dallo stadio di Zagabria giace una lapide che recita:

“Ai sostenitori della squadra che su questo terreno iniziarono la guerra contro la Serbia il 13 maggio 1990.”

Di lì a poco, infatti, gli eventi precipitano nella guerra vera e propria.
Nel frattempo Raznatovic è riuscito ad unificare nel nome del nazionalismo serbo di Milosevic tutti i gruppuscoli di tifosi della Stella Rossa, che hanno assunto il nome di Delije, “eroi” in serbo. Ma la svolta politica è tra 1990 e 1991, quando la nascente Tigre viene scelta per dirigere il Centro per la Formazione Militare del Ministero per gli Affari Interni serbo, in virtù delle sue doti umane e per le reti di conoscenze particolarmente adatte che aveva sviluppato negli anni passati tra traffici di ogni tipo, carcere, e da ultimo in curva. E’ così che lo zelante Zeljko raduna, tra gli altri, diversi dei suoi ex compagni di tifo e comincia ad addestrarli, formando un corpo paramilitare di circa 3000 soldati che rispondono esclusivamente ai suoi comandi e che esordiscono in guerra verso la fine del ’91. E’ la famigerata unità “Tigre” (Arkan vuol dire felino in serbo-croato).
Non c’è modo di elencare tutti crimini commessi dall’unità tigre: Bijeljina, Brcko, Prijedor, Sanski Most, Cerska, Srebrenica, sono soltanto alcuni dei nomi di luoghi ricordati per i massacri che le tigri, tra gli altri, vi hanno commesso.

Dopo la guerra e con un cospicuo bottino accumulato grazie a traffici di armi, droga, puttane, il contrabbando di sigarette e il saccheggio di interi villaggi popolati oppure abbandonati dagli emigrati, la Tigre torna alla sua occupazione principale in tempo di pace, quella di gangster, ma con in più gli onori tributati ad un eroe di guerra: nel marasma bellico la sua stella aveva brillato, rossa di sangue, e nel caotico dopoguerra continua a splendere.
Nel corso degli anni ’90 la Tigre diventa presidente del FK Obilic, squadra di calcio che nel 1998 arriva addirittura a qualificarsi in Coppa dei Campioni. E’ a quel punto che le pressioni della stampa internazionale lo spingono a rinunciare alla presidenza (a favore della moglie): cominciano infatti ad emergere le gravi accuse di crimini di guerra e contro l’Umanità nei confronti delle unità comandate dalla Tigre. Passano ancora un paio anni e la parabola di Arkan si conclude come era prevedibile, in perfetto stile gangster: viene crivellato di proiettili nella hall di un albergo di Belgrado, il 15 Gennaio del 2000.
Nel 1998, anno in cui l’Obilic si propose sul palcoscenico europeo, i riflettori mediatici puntarono sul suo controverso presidente e di rimbalzo anche su Siniša Mihajlović, solare difensore della Lazio. Il giocatore non fu risparmiato dalla stampa italiana per le sue simpatie pubblicamente manifestate verso un macellaio delle proporzioni di Arkan ma, per sua fortuna, il simpatico Siniša fu generosamente difeso dalla curva bianco-celeste, che in occasione di una partita espose questo striscione:

“Onore alla tigre arkan irriducibili come noi”

Nel 1999, nel corso della crisi del Kosovo che porterà ai bombardamenti NATO contro la Serbia, Arkan dichiara:

«Che cosa posso dire di me? Che amo più di qualunque cosa la Serbia. Che sono un patriota, che credo in Dio e nella famiglia. Che sarei fiero, se necessario, di dare la vita per la mia patria e che non ho mai fatto del male a nessuno. Come i miei patrioti, le "Tigri"»

Ecco, a questo punto potrebbero seguire tonnellate di analisi e sentenze sugli ultras laziali o su Arkan, acute riflessioni sociologiche da salotto e quant’altro rientri nell’armamentario della mansueta sinistra da salotto. Partire dal presupposto che la violenza sia da condannare, manda già fuoristrada se ci si vuole rapportare a quelle realtà che fanno proprio della violenza e dello scontro i punti fermi della propria identità.
Non tutti condivideranno la mia opinione, che non è una teoria, e che prevede alcune eccezioni, ma spero che ci sia chi vuole discuterne. Per quel che vale, la mia idea è che vivere la propria vita come una faida continua contro gli altri e contro il destino è una cosa malata, e non solo in sé, ma anche perché l’odio si nasconde sempre dietro allo spirito di servizio verso una causa, verso altre persone, magari dietro la lotta contro alcune ingiustizie. Tutti gli apparati militareschi, fatti di linguaggi e regole, usati tanto dai partiti quanto dai gruppi ultras, sono fatti apposta per seguire ed obbedire i Grandi Combattenti tipo Arkan. Il problema è che tutti questi grandi combattenti, specie quelli che sventolano una bandiera o portano qualche stelletta sulla spalla, inseguono puntualmente un qualche sogno di gloria personale, il più delle volte spietato, tirannico e folle. Fin dall’adolescenza ho sempre avuto scarsa simpatia per le bandiere, più che altro per un’istintiva diffidenza verso questo serrare i ranghi, allinearsi e compattarsi su un fronte comune. Fin’ora, posso dire che l’esperienza ha rafforzato questa mia diffidenza perché più vado avanti, più mi trovo davanti a personaggi che professano queste grandi e incrollabili fedi, questa dedizione alle idee e alle identità, pancia in dentro e petto in fuori, salvo poi guardare loro le mani e trovarle sempre piene di merda e sangue (e/o soldi), mentre guardano dritti e fieri la bandiera che sventola, sull’attenti, e ci scappa pure una lacrimuccia, per la patria, per i fratelli morti, per la nonna che non c’è più. E’ facile credere in queste cose: basta radunarsi tutti insieme a una cerimonia, con un canto e qualche colore. E un nemico. E’ talmente facile Kredere con la Kappa Maiuscola che ci riescono praticamente tutti, e guarda caso meglio di tutti ci riescono alcuni dei peggiori figli di puttana in circolazione in tutte le epoche, in tutti i paesi, in tutte le curve.

CITAZIONE DEL GIORNO

"La legge di Dio non può mai essere contro l'uomo. La legge di Dio è sempre per l'uomo. Andare contro la legge di Dio significa andare contro l'uomo. Dunque, se le due leggi entrano in contrasto è perché la legge dell'uomo non è una buona legge e si rivelerà tale dai suoi frutti."
Severino Poletto, Cardinale di Torino