lunedì 17 marzo 2008

I Dervisci del Kurdistan la sottomissione e l'autocensura

Recentemente mi è capitato di vedere un bel documentario girato negli anni '80 in un paesino al confine tra Iran e Iraq, che riguardava una setta religiosa particolare, i Dervisci del Kurdistan. I Kurdi rientrano tra quelle popolazioni che, nel grande Risiko colonlista e nazionalista degli ultimi due secoli e mezzo, hanno avuto qualche problema con i dadi: benché dotati di lingua e tradizioni religiose e politiche proprie (non come i Veneti, quindi), non hanno avuto modo di creare un'entità politica autonoma che li rappresenti, rimanendo schiacciati e vessati da Iran, Iraq e Turchia. I Kurdi sono cristiani, musulmani, comunisti, ecc... ma nel caso in questione erano Dervisci, "cugini", cioé, di qui Dervisci rotanti turchi che chiunque abbia letto o visto, ad esempio, La casa dorata di Samarcanda di Corto Maltese, potrebbe ricordarsi.
La comunità del documentario viveva principalmente di agricoltura, di pastorizia, e di piccolo commercio di contrabbando, particolarmente fruttoso, sebbene rischioso, durante la guerra tra Iraq ed Iran. A capo del villaggio vi era la principale autorità spirituale, tale Sheikh Mohammed.
Ora, bisogna precisare che i Dervisci in questione erano fondamentalmente musulmani, ma avevano culti caratteristici che li distaccavano dall'ortodossia principale dell'Islam, il sunnismo, così come dallo Sciismo, dominante in Iran. La caratteristica principale del loro culto consisteva infatti nel praticare atti di automutilazione, come il trapassarsi le guance con grossi spilli, il mangiare bicchieri di vetro, il farsi attraversare il corpo da scariche eletriche... Il tutto avveniva nel corso di alcune cerimonie serali in cui venivano coinvolti anche i giovani, sempre sotto l'attenta guida e la sorveglianza degli adulti, e dello Sheikh in particolare.
Qualunque fosse la propria "specialità", spillo, bicchiere o anche la semplice trance provocata dall'incessante ripetizione di una litania (le musiche, tra l'altro, sono belissime), si doveva chiedere l'autorizzazione allo Sheikh, il quale normalmente concedeva la possibilità di fare ciò che si era chiesto, per assistervi impassibile.
Dunque, occorre precisare che l'autorità dello Sheikh era ereditaria, e questa concentrazione del potere sembrava, dal documentario, una caratteristica tipica dei Dervisci. Arrivo al punto. Nella comunità vi erano famiglie più o meno importanti, a seconda del grado di parentela, più vicino o più lontano, con lo Sheikh. Chiunque avesse voluto entrare nella comunità del villaggio, senza esservi nato o avervi parenti, avrebbe dovuto esservi accettato dallo Sheikh: sotto questa condizione, qualcuno avrebbe sicuramente dato lavoro al nuovo venuto nei propri campi, o come pastore, a condizione che pregasse, digiunasse quando pescritto, e che si comportasse in modo pudico e morale verso le donne e gli altri. Nulla più era richiesto.
Eppure, tornando alle cerimonie, esse rappresentavano atti di sottomissione al capo, poiché erano espressamente dedicate a lui, ed era tale dedica a far sì che non si riportassero conseguenze dannose sul proprio corpo. Erano atti di fede e di sottomissione. Nel documentario, si diceva anche espressamente che questi atti erano tipici delle persone più povere e meno in vista, che erano sempre coloro che non possedevano terra e che non potevano rivendicare nessuna parentela con lo Sheikh. Lo Sheikh stesso, come i suoi parenti più stretti e le persone del suo stesso rango, non si dedicavano a tali pratiche, benché la loro fede non fosse messa in discussione; neanche, a dire il vero, questi le richiedeva agli altri: eppure quelle trance, quelle ferite, quegli atti di fede, erano espressamente diretti a lui. Sembrava che la gente riuscisse davvero a non ferirsi in modo permanente, o che sapesse mascherare molto bene il dolore e le conseguenze.
In sostanza: la fede derviscia, almeno in questi casi, si esprimeva con atti di automortificazione che rappresentavano la sottomissione verso l'autorità; erano, in altre parole, una risorsa a disposizione di tutti per poter entrare a far parte di una comunità che dava grande valore la fede. Ma, cosa più importante, erano una risorsa aperta a tutti coloro che per nascita non avevano una posizione in vista nella società. Si trattava, in fondo, di accettare un pò di dolore. Era come se fossero modi per farsi accettare, per entrare nella comunità, ma il gioco subdolo era che se da un lato queste pratiche garantivano l'integrazione nel gruppo, dall'altro erano un segno indelebile di inferiorità: nessun parente dello Sheikh, e meno di tutti lo stesso Sheikh, avrebbero mai fatto niente del genere.
Di esempi simili nella nostra società ce ne sono a bizzeffe; mi viene in mente, in particolare, Fantozzi: la passione aziendale per il ciclismo nella Coppa Cobram è un mezzo fondamentale per avanzare di grado o anche solo per mantenere la propria posizione aziendale. Sembra che quindi ogni gerarchia si basi su alcune convinzioni o alcune regole che occorre rispettare, o meglio, delle quali occorre manifestare (o ostentare) il rispetto, per poter stabilmente far parte del gruppo.
Un altro esempio potrebbero essere i gornalisti del TG (ce ne sarebbero miliardi, ma mi è venuto questo); ora, poniamo che voi non siate parenti di nessuno e che lavoriate in Rai (improbabile), diciamo a Rai Uno (che culo). Un bel giorno, al cambo di governo, per decreto (papale) viene deciso che il vostro nuovo megadirettore del TG sarà Clemente J. Mimun (J. sta per Junior). Diciamo che voi non siete dei rivoluzionari, che non volete abolire la proprietà privata e che la dittatura del proletariato non è tra i vostri obiettivi principali nella vita; cionostante, siete moderatamente tendenti a sinistra, non credete nel mercato assoluto e selvaggio, nelle bombe all'uranio democratico, ecc... (tra l'altro, se la pensate così, vi comunico che non avete più un partito che vi rappresenti). Il nuovo direttore non è dello stesso avviso, ma ovviamente (mica tanto, si fa per dire) non può cacciarvi. Quindi, lui è lì e voi dovete decidere cosa fare con le immagini delle manganellate che alcuni sbirri hanno gratuitamente rifilato (per assurdo, si capisce) ad alcuni manifestanti pacifisti. Mimun si sbellica dalle risate vedendo le immagini, fa un rutto, palpa il culo di una segretaria che passa di lì, e poi vi chiede:
"Che facciamo allora...le mandiamo in onda queste immagini o no? No vero? Poi la gente si impressiona mentre mangia..e questi puciosi...queste zecche qui...ben gli sta no? Allora?"
Voi avete figli a carico, il lavoro in fondo vi piace, e non potete fare altrimenti che cercare di tenere il posto: che fate?
Date prova di fede per poter vivere, o no? Tenete famiglia o no? Andate incontro all'emarginazione o prendete l'occasione offertavi per avere un posto al sole? (ma neanche al sole, diciamo un posto non all'ombra, un posto nel mondo). E la prossima volta, che fate? Glielo richiedete di mandarle in onda?
Di buono c'è che qui, a differenza che tra i Dervisci, non si tratta di farsi male. Dopotutto, sono solo idee e le idee, come si sa, contano poco. Che differenza fa se uno le cambia? Mica rimangono le ferite, no?

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