giovedì 29 gennaio 2009

CITAZIONE DEL GIORNO

"Italiani! Cosa dire? Avremo l'esercito: un militare ogni bella donna. Chissà quanti militari avremo. Se facciamo questa regola, dovremo avere, per ogni mignotta, quanti presidenti del Consiglio?"
Beppe Grillo.

mercoledì 28 gennaio 2009

UN ITALIANO CHE STUPRA E' UNO STUPRATORE, UN RUMENO CHE STUPRA E' UN RUMENO

Che dire di gente, come quelli di Forza Nuova, che si indignano e vogliono linciare quattro stupratori a Guidonia ma rimangono indifferenti ai decenni di sevizie perpetrati da decine di prelati all'Istituto Provolo a Verona (vedi qui). Dove sono le folle che reclamano giustizia per i nostri figli? Perché la cosa deve essere trattata con tutta questa discrezione, evitando polemiche "che danneggerebbero per prime le vittime stesse", mentre dall'altra parte le NOSTRE donne sono prese e usate come bandiere da sventolare nel nome della pulizia etnica?
I fascisti mi fanno pena, soprattutto quando si raccontano le loro storie di eroismo, di impegno sociale. A loro delle donne non importa niente, come della religione o dell'Occidente. Vivono solo per eliminare la differenza in ogni sua forma.

giovedì 22 gennaio 2009

IL PATRIOTTISMO E' L'ULTIMO RIFUGIO DI UN FARABUTTO

“Il patriottismo è l’ultimo rifugio di un farabutto”,
S. Johnson.

“Ci serve gente del tuo stampo, capace di uccidere in modo animalesco. Se tutto va bene, finite sempre con l’essere chiamati eroi.”
V. Evangelisti, Black Flag.

A poche persone l’aforisma di Samuel Johnson, ripreso da Kubrick in Orizzonti di Gloria, o anche la citazione di Black Flag, calzano a pennello quanto a Zeljko Raznatovic, la famigerata tigre Arkan. Raznatovic è uno di quei personaggi in cui sembra esserci un’innata vocazione, quasi mistica, alla violenza ed all’arricchimento, fin dalla giovane età. L’uomo è uno dei tanti che si muovono in quella zona grigia tra crimine e politica in cui operano i servizi segreti: Raznatovic è infatti un famigerato rapinatore di banche conosciuto in tutta Europa, che mette a segno il suo primo colpo in Italia, a Milano, nel 1974. Nel frattempo però lavora anche per la polizia segreta jugoslava, che in cambio di un sostegno logistico (passaporti falsi, armi, denaro, barbe finte) gli commissiona diverse operazioni ai danni di jugoslavi emigrati e poco graditi al regime.
Negli anni ’80 fa ritorno a Belgrado dopo aver accumulato una discreta fortuna, e comincia a costruire la sua brillante carriera di mafiosetto locale. Diventa gestore di una discoteca, di una pasticceria (da cui si dice che ogni tanto provenisse qualche sparo di troppo), nonché capo degli ultras della Stella Rossa di Belgrado, mentre nel tempo libero non disdegna qualche omicidio su commissione. La parabola della vita di Raznatovic si sarebbe anche potuta concludere a Belgrado, nella condizione di relativamente stabile prosperità garantitagli dalle sue numerose attività. Una specie di Tony Montana nei Balcani, un pò Scarface un po’ Gatto Nero Gatto Bianco. Ma il destino aveva altri piani per la futura Tigre e di lì a poco la storia di un farabutto come molti altri si sarebbe trasformata in qualcosa di più grande.
E’ il 1990 e la Storia con la esse maiuscola sta per passare di nuovo dai Balcani dando vita alla feroce guerra etnico-nazionalistica che conosciamo, ma circa un anno prima che cominciassero gli scontri militari tra serbi e croati, la Storia, appunto, decide di annunciarsi in un occasione particolare: una partita del campionato di calcio un tantino tesa, tra Stella Rossa di Belgrado e Dinamo Zagabria. E’ il 13 Maggio del 1990. Per chi si ricorda del pacifico Zvonimir Boban, basti dire che l’allora capitano della formazione di Zagabria spaccò la mascella ad un poliziotto con una ginocchiata. Il clima è infuocato: lo stadio Maksimir diviene teatro di accaniti scontri tra le due tifoserie, aizzate dalla stampa e dall’opinione pubblica che si lascia coinvolgere ogni giorno di più dalla propaganda politica nelle campagne xenofobe e ultranazionaliste di Tudman dalla parte croata e di Milosevic da quella serba. Ancora oggi, fuori dallo stadio di Zagabria giace una lapide che recita:

“Ai sostenitori della squadra che su questo terreno iniziarono la guerra contro la Serbia il 13 maggio 1990.”

Di lì a poco, infatti, gli eventi precipitano nella guerra vera e propria.
Nel frattempo Raznatovic è riuscito ad unificare nel nome del nazionalismo serbo di Milosevic tutti i gruppuscoli di tifosi della Stella Rossa, che hanno assunto il nome di Delije, “eroi” in serbo. Ma la svolta politica è tra 1990 e 1991, quando la nascente Tigre viene scelta per dirigere il Centro per la Formazione Militare del Ministero per gli Affari Interni serbo, in virtù delle sue doti umane e per le reti di conoscenze particolarmente adatte che aveva sviluppato negli anni passati tra traffici di ogni tipo, carcere, e da ultimo in curva. E’ così che lo zelante Zeljko raduna, tra gli altri, diversi dei suoi ex compagni di tifo e comincia ad addestrarli, formando un corpo paramilitare di circa 3000 soldati che rispondono esclusivamente ai suoi comandi e che esordiscono in guerra verso la fine del ’91. E’ la famigerata unità “Tigre” (Arkan vuol dire felino in serbo-croato).
Non c’è modo di elencare tutti crimini commessi dall’unità tigre: Bijeljina, Brcko, Prijedor, Sanski Most, Cerska, Srebrenica, sono soltanto alcuni dei nomi di luoghi ricordati per i massacri che le tigri, tra gli altri, vi hanno commesso.

Dopo la guerra e con un cospicuo bottino accumulato grazie a traffici di armi, droga, puttane, il contrabbando di sigarette e il saccheggio di interi villaggi popolati oppure abbandonati dagli emigrati, la Tigre torna alla sua occupazione principale in tempo di pace, quella di gangster, ma con in più gli onori tributati ad un eroe di guerra: nel marasma bellico la sua stella aveva brillato, rossa di sangue, e nel caotico dopoguerra continua a splendere.
Nel corso degli anni ’90 la Tigre diventa presidente del FK Obilic, squadra di calcio che nel 1998 arriva addirittura a qualificarsi in Coppa dei Campioni. E’ a quel punto che le pressioni della stampa internazionale lo spingono a rinunciare alla presidenza (a favore della moglie): cominciano infatti ad emergere le gravi accuse di crimini di guerra e contro l’Umanità nei confronti delle unità comandate dalla Tigre. Passano ancora un paio anni e la parabola di Arkan si conclude come era prevedibile, in perfetto stile gangster: viene crivellato di proiettili nella hall di un albergo di Belgrado, il 15 Gennaio del 2000.
Nel 1998, anno in cui l’Obilic si propose sul palcoscenico europeo, i riflettori mediatici puntarono sul suo controverso presidente e di rimbalzo anche su Siniša Mihajlović, solare difensore della Lazio. Il giocatore non fu risparmiato dalla stampa italiana per le sue simpatie pubblicamente manifestate verso un macellaio delle proporzioni di Arkan ma, per sua fortuna, il simpatico Siniša fu generosamente difeso dalla curva bianco-celeste, che in occasione di una partita espose questo striscione:

“Onore alla tigre arkan irriducibili come noi”

Nel 1999, nel corso della crisi del Kosovo che porterà ai bombardamenti NATO contro la Serbia, Arkan dichiara:

«Che cosa posso dire di me? Che amo più di qualunque cosa la Serbia. Che sono un patriota, che credo in Dio e nella famiglia. Che sarei fiero, se necessario, di dare la vita per la mia patria e che non ho mai fatto del male a nessuno. Come i miei patrioti, le "Tigri"»

Ecco, a questo punto potrebbero seguire tonnellate di analisi e sentenze sugli ultras laziali o su Arkan, acute riflessioni sociologiche da salotto e quant’altro rientri nell’armamentario della mansueta sinistra da salotto. Partire dal presupposto che la violenza sia da condannare, manda già fuoristrada se ci si vuole rapportare a quelle realtà che fanno proprio della violenza e dello scontro i punti fermi della propria identità.
Non tutti condivideranno la mia opinione, che non è una teoria, e che prevede alcune eccezioni, ma spero che ci sia chi vuole discuterne. Per quel che vale, la mia idea è che vivere la propria vita come una faida continua contro gli altri e contro il destino è una cosa malata, e non solo in sé, ma anche perché l’odio si nasconde sempre dietro allo spirito di servizio verso una causa, verso altre persone, magari dietro la lotta contro alcune ingiustizie. Tutti gli apparati militareschi, fatti di linguaggi e regole, usati tanto dai partiti quanto dai gruppi ultras, sono fatti apposta per seguire ed obbedire i Grandi Combattenti tipo Arkan. Il problema è che tutti questi grandi combattenti, specie quelli che sventolano una bandiera o portano qualche stelletta sulla spalla, inseguono puntualmente un qualche sogno di gloria personale, il più delle volte spietato, tirannico e folle. Fin dall’adolescenza ho sempre avuto scarsa simpatia per le bandiere, più che altro per un’istintiva diffidenza verso questo serrare i ranghi, allinearsi e compattarsi su un fronte comune. Fin’ora, posso dire che l’esperienza ha rafforzato questa mia diffidenza perché più vado avanti, più mi trovo davanti a personaggi che professano queste grandi e incrollabili fedi, questa dedizione alle idee e alle identità, pancia in dentro e petto in fuori, salvo poi guardare loro le mani e trovarle sempre piene di merda e sangue (e/o soldi), mentre guardano dritti e fieri la bandiera che sventola, sull’attenti, e ci scappa pure una lacrimuccia, per la patria, per i fratelli morti, per la nonna che non c’è più. E’ facile credere in queste cose: basta radunarsi tutti insieme a una cerimonia, con un canto e qualche colore. E un nemico. E’ talmente facile Kredere con la Kappa Maiuscola che ci riescono praticamente tutti, e guarda caso meglio di tutti ci riescono alcuni dei peggiori figli di puttana in circolazione in tutte le epoche, in tutti i paesi, in tutte le curve.

CITAZIONE DEL GIORNO

"La legge di Dio non può mai essere contro l'uomo. La legge di Dio è sempre per l'uomo. Andare contro la legge di Dio significa andare contro l'uomo. Dunque, se le due leggi entrano in contrasto è perché la legge dell'uomo non è una buona legge e si rivelerà tale dai suoi frutti."
Severino Poletto, Cardinale di Torino

martedì 20 gennaio 2009

QUELLO CHE NON VEDIAMO DELLA PALESTINA


CITAZIONE DEL GIORNO

"Fluttuare come una farfalla, pungere come un'ape"
Mohammad Ali

lunedì 19 gennaio 2009

ARABESCHI FUMOSI E TERRIBILI

Io non credo agli ordini mondiali. Mi sembra un'idea assurda che ci sia un centro di potere che detta le regole fino ai quattro angoli della nostra sfera di roccia. Non ci credo perché non credo alle teorie del complotto: sono una versione post-moderna delle teologie e teodicee, cristiane e non, con le quali si spiega il male, il bene, ecc... Sono idee rassicuranti, perché promettono che in definitiva un'ordine c'è, e il fatto che tale ordine corrisponda allo stato attuale della lotta tra male e bene oppure alle strutture dell'economia o degli interessi delle multinazionali, poco importa. Un ordine c'è e tanto basta a rassicurare noi uomini.
Ora, il problema è che io credo che l'11/9 sia stato pensato e sostanzialmente realizzato da poteri e forze interne agli Stati Uniti. Alla fine di qualche serata fumosa mi metto a pensarci. Inspiro, espiro e lascio scorrere davanti ai miei occhi tutto l'imprinting subito negli ultimi anni, e forse anche prima.
Le torri che cadono con quella metodicità, con ordine. Il terzo palazzo che cade senza motivo, dal nulla. La facciata del pentagono integra dopo che qualcosa, non certo un boeing, l'ha colpita. Penso alle manifestazioni pro-america e a quelle contro la guerra. Schiere di manifestanti. Penso alla Fallaci, al diritto di tutti di disprezzare i musulmani e l'Islam in generale, garantito dagli ottusi cantori di ogni potere forte, quali quelli attualmente al governo. Penso alla sottile paranoia che si insinua in tutti al momento di salire su di un aereo, quando un barbuto e seriosissimo potenziale uomo nero si siede alla mia destra. A Colle Val d'Elsa bisogna decidere se edificare un centro islamico con annessa moschea, ma è rischioso, pericolo terrorismo: viene progettato in vetro perché all'interno non deve accadere nulla di sospetto. Il mondo è cambiato e la mia percezione di esso, forse, ancora di più. Da quell'anno in poi, quasi niente, a livello politico è andato bene. Il g8, che sembrava il preludio a qualcosa di grande, è stato solo il canto del cigno dei movimenti, (quasi) mai più rivisti. Pur aspettandoci tutti il peggio, le cose sono andate ancora peggio.
Sembra di intravedere un lucido disegno, a volte, in tutto questo. C'era un movimento, quello no-global, che faceva paura, quale che fosse poi il suo potenziale reale. Finito, morto. Soprattutto negli U.S.A., una generazione che poteva unirsi ed impegnarsi al fine di costruire una nuova coscienza politica di massa, è stata inquadrata nei ranghi mentali e fisici del patriottismo, dell'ennesimo stringersi gli uni agli altri contro un nemico comune.
Chiunque abbia partorito questo piano è stato un genio. Una volta che la versione ufficiale sull'11/9 si è affermata ed ha portato le conseguenze che conosciamo, quale peso potranno avere le voci di dissenso che pure sono crescenti? La verità verrà a galla, prima o poi, ci mancherebbe, ma sarà tutto inutile: le priorità politiche saranno altre e parlare di ciò che è stato non avrà più importanza, né senso.

Alla fine di serate ancora più fumose penso all'Italia ma la faccenda si fa più confusa. Penso al biennio '92-'93. Fine della Prima Repubblica. Tangentopoli abbatte un sistema di ingranaggi politici oliati da denaro, montagne di denaro. Corruzione nonché abuso di soldi pubblici. Nel frattempo, prende il via la privatizzazione del patrimonio economico pubblico. Senza che la maggior parte delle persone se ne renda conto, l'intera ossatura economica della nazione, che ha guidato lo sviluppo dal dopoguerra in poi, viene venduta, spesso svenduta, in cambio di rapporti politico-economici di favore. C'è l'Europa e l'Italia deve per forza rientrarci. Peccato che la filosofia con cui le nascenti istituzioni europee sono condotte sia una fede ottusa nel mercato, ma nessuno trova una formula convincente per opporsi, mentre un'intera classe politica attende il suo turno al patibolo mediatico e giudiziario. C'è un terzo filo conduttore in questo periodo. E' la Mafia. Si è tenuto il maxi processo a Palermo e grazie ad un sistema di rotazione dei giudici, le garanzie che i mafiosi credevano di avere sono saltate. Vengono condannati, 41bis, regime durissimo, soprattutto per chi credeva di farla (quasi) franca. La vicenda si fa confusa. La Mafia sfida lo Stato ed uccide, tra gli altri, i due giudici. Penso alla foto famosa, quella in cui sono seduti accanto e si sussurrano qualcosa. La mafia piazza bombe in luoghi casuali e drammatici. Milano: Via Palestro. Roma: San Giovanni in Laterano, San Giorgio al Velabro. Via dei Georgofili a Firenze. Cerca interlocutori nelle istituzioni, gente nuova, ma è difficile. C'è un clamoroso vuoto di potere e serve qualcuno che lo riempia. Ma ecco che dal nulla un imprenditore milanese, ben radicato in Sicilia, comincia ad avvicinarsi pubblicamente alla politica, alla destra in particolare. Non che la storia o le teorie politiche gli interessino molto, il fatto è che l'opposizione alla sinistra è l'unico contenuto che lo avvicina a quelle forze politiche disposte ad un accordo. Fonda un partito, una cosa nuova, che cavalca l'ingenuo e diffuso bisogno di rinnovamento. Intanto, le stragi si concludono con il fallito attentato a Roma, vicino allo stadio, in occasione di Lazio-Udinese. E' l'Ottobre del 1993 e mentre le stragi finiscono nasce Forza Italia.

Certe volte vedo tutte queste immagini che mi passano davanti, una dopo l'altra. Non si sistemano mai in una configurazione definitiva ma disegnano traiettorie, arabeschi precari e terribili. Come un equazione che può e deve essere risolta. L'unica paura è che risolverla non cambi nulla. Nulla.

CITAZIONE DEL GIORNO

“Dobbiamo usare il terrore, l’assassinio, l’intimidazione, la confisca delle loro terre, per ripulire la Galilea dalla sua popolazione araba.”
David Ben Gurion

martedì 13 gennaio 2009

Una stronzatina tanto per farsi una risata

Basta parlare male di Bocchino, che dopotutto un merito ce l'ha avuto: da quando c'è lui si può dire bocchino in televisione.

QUELLO CHE DOBBIAMO FARE

Il peggio

Ieri c’era in programma all’Arci di Fontebecci un incontro/dibattito dal titolo Ma che razza di parole usi? sul tema del razzismo nella comunicazione, con ospiti di riguardo: Dario Vergassola, Moni Ovadia e il presidente della FNSI, assente giustificato con tanto di presenza via cellulare microfonato, un momento molto Ballarò davvero toccante. Era sostituito da uno che non ho capito chi fosse, un giornalista, comunque. L’ospite di riguardo, almeno per me, era però il moderatore, Stefano Bisi, ambiguo e glabro direttore del Corriere di Siena (“Daino irrompe in un negozio e lo devasta” titolava una sua indimenticabile civetta di qualche anno fa). Il personaggio è uno di quelli ricoperti da un’unta e scivolosa patina di mediocrità mista ad ambiguità. In sostanza è uno stronzo, e per di più incapace di fare ciò che è pagato per fare.
Il Bisi lo aspettavo ad un dibattito pubblico da molto tempo, tanto per chiedergli un paio di cose proprio sul tema del razzismo. L’anno scorso infatti ci fu una polemica a partire da un articolo comparso sul suo Corriere dei Piccoli, in cui si tracciava una mappa della Lizza (centralissimo "parco" di Siena) in cui si descrivevano le varie “etnie” (etnie dell’est, etnie rumene, etnie rom? E l’etnia italiana com’è?) che occupavano i vari punti del parco. L’articolo lamentava poi la massiccia occupazione delle panchine da parte soprattutto delle badanti (ce l’hanno scritto in fronte?). L’articolo denunciava quindi la mancanza di spazio per i “nostri” anziani e per i bambini senesi.
Da notare che l’articolo fu scritto in piena emergenza immigrazione=delinquenza, quando sotto il governo Prodi eravamo minacciati ogni giorno da orde di banditi/stupratori, per lo più rumeni, o Rom che dir si voglia. Per fortuna, con la vittoria del Piddielle alle elezioni, l’emergenza è rientrata (Ai delinquenti devono essere bastate le facce dei nuovi governanti per abbassare la cresta…) Qualche mese dopo la polemica ci fu un nuovo articolo in cui il Bisi in persona reclamava la necessità di "fare pulito alla Lizza" dal degrado dei banchetti e delle libagioni tenute rigorosamente da extracomunitari (o neocomunitari) sulle panchine della Lizza. Una nuova polemica nacque per via del linguaggio truce che era stato usato: “fare pulito” suonava proprio male, per via della palese assonanza con il ben più sinistro concetto di “pulizia”, in questo caso, per l’appunto, etnica. Bisi rispose che chi si era indignato per il suo linguaggio era un ignorante perché lui intendeva “fare pulito”, ma inteso “alla senese”. Qui faccio appello alla conoscenza della mia stessa lingua nativa per dire che “fare pulito” vuol dire recarsi in un luogo e “sbaraccare” o “sparecchiare” diversa roba, oggetti, persone e animali inclusi. In genere si utilizza in accezione bellicosa ed in contesto paliesco, oppure verso la fine di una discreta sbornia, spesso verso fine luglio, quando molti miei concittadini, soprattutto giovani, non cercano altro, per concludere la serata, che di dare un bel paio di cazzotti, a chi non importa, inscenando uno di quei grandiosi psicodrammi etilici a base di onore e orgoglio cui tutti, almeno una volta nella vita, hanno assistito.
Bisi esordisce proprio citando l’episodio e sostenendo che può accadere che, involontariamente (è chiaro!) anche uno scafato giornalista possa cadere in una trappola razial-linguistica, in cui senza volerlo si discrimina qualche gruppo nazionale o etnico.
“Bene, penso, forse ha voglia davvero di discutere l’episodio”
In effetti afferma poi che con l’articolo intendeva soltanto descrivere una realtà di fatto e che non era colpa sua se il messaggio era stato recepito male. Proprio questo volevo dirgli: tu non puoi nasconderti dietro il dito della descrizione perché se in piena paranoia xenofoba butti fuori ogni giorno titoloni su rumeni, rom, moldavi ecc… che fanno questo e quello, devi sapere che alimenti una tendenza di pensiero pericolosa e purtroppo estremamente diffusa. Altrimenti è troppo comodo dire che se uno spara verso il bersaglio che gli hai indicato tu, la colpa è solo di chi spara. O come dire che è la mano che fa le seghe. Ma questo è un altro discorso.
Insomma, è il contesto che da senso alla notizia: scrivere un titolo tipo “rumeno stupra donna” non è una semplice descrizione di qualcosa, perché il titolo è scelto in funzione di quello che si ritiene sia l’interesse principale da parte dell’opinione pubblica. Il giornalista italiano medio probabilmente non è che ce l’ha con gli immigrati per forza, ma siccome crede che la gente ce l’abbia con loro pensa che un titolo come quello possa suscitare curiosità e indignazione, possa fare effetto, e quindi lo butta là. Se dunque per ragioni essenzialmente di mercato si decide di conformarsi all’opinione pubblica, le cui priorità di pensiero sono quasi sempre dettate dalle agende politiche, ecco che volenti o nolenti, destra o sinistra, sempre su luoghicomuni e stereotipi si ricade.
Confesso che secondo me questa è una teoria un po’ buonista, ma diciamo che il dibattito, sebbene ad un livello di discussione infimo, grosso modo sembrava dover ruotare intorno a questo concetto. In effetti i 4 personaggi seduti sul palco e intenti a passarsi il microfono, di tutto avevano voglia di parlare tranne che di razzismo e mezzi di comunicazione. Vergassola, contro cui non ho niente, non c’entrava nulla con il contesto ma poteva anche essere un buon personaggio, invitato per allentare un po’ la tensione e ammorbidire un dibattito che poteva farsi aspro e pesante, ma che sfortunatamente non c’è stato. Infatti, alla prima occasione buona Bisi deviava sulle domande concernenti i personaggi dello spettacolo professionalmente frequentati da Vergassola, tipo Maurizio Costanzo. Bisi pregustava già il resoconto salottiero che avrebbe fatto l'indomani delle chiacchiere e dei gossip condivisi assieme ai personaggi invitati. Il giornalista professionista (era quello che sostituiva il presidente della FNSI), un tizio che non ho capito chi fosse e che non ha detto niente di interessante (tale e quale un politico del PD), ha cercato in un paio di occasioni di discutere del vero oggetto del dibattito. A vuoto. Vergassola imperversava in monologhi, anche divertenti, ma tristemente fuori tema, mentre Bisi lo incalzava con domande tipo “Ma dicci di Maurizio Costanzo…”
Ad un certo punto, dopo che il direttore del Corrierino ha posto l’ennesima domanda:
E la Ventura?”
si è sentita una voce femminile in mezzo alla sala urlare “Ma chi se ne frega?!”
Scatta la tensione: arriva il Maestro Adriano Fontani, da anni in lotta con l’establishment senese che lo ha privato del posto di insegnante. La complicata teoria del complotto portata avanti da questa persona è interamente narrata su numerosi cartelli che l'uomo porta sempre con se, in ogni occasione pubblica a Siena, e quando può ne tappezza anche il suo pandino bianco. La teoria ancora non l’ho capita, perché i suoi manifesti scritti a mano con l'uniposca sono ricchi di slogan tipo “complotto massonico dei poteri forti Senesi” “omertà da regime stalinista” e “cospirazione con i testimoni di Geova”, ma poveri di filo logico.
Il clima si surriscalda perché il malcontento del pubblico è evidente. Moni Ovadia parla tanto e a proposito, ma di Gaza e di Israele. Sono completamente d’accordo con lui. Parla di Zero, un documentario orribile di Giulietto Chiesa, mandato in onda in Russia ma inedito in Italia. Parla di censure palesi e occulte. Ma non parla di razzismo. Il livello è basso, l’entusiasmo dei parlanti e del pubblico è sotto le scarpe. Aspetto solo il momento delle domande, so cosa dire, ho in mente di far fare al Bisi una figura di merda di quelle colossali. Una figura come un giorno di lavoro, come si suol dire, anche se non so perché. Ecco che però non c’è dibattito. Devono aver capito l’antifona. Diversa gente se n’è andata. Inizio a sbraitare. Il corriere è una merda.


Il meglio

Un tizio seduto dietro a me, alto grosso, occhi chiarissimi, una calma olimpica nei gesti e nella voce, mi appoggia la mano sul braccio e mi fa:
“Ma che è un giornale quello? Ha passato un anno a mette le foto del presidente della provincia., del candidato del Pd alle primarie e neanche una chessò? di quelli che hanno ripulito Piazza il primo dell’anno…oh io sò di sinistra eh ma quel giornale un lo posso legge…la nazione poi figuriamoci! un posso nemmeno vedè il titolo!”
“Oh perché la domanda sulla Ventura? Lui vole fa il salottino buono…”
“Si si delle cazzate e basta vole parlà”
Così si chiacchiera, con questo personaggio. E’ strana l’osservazione che ha fatto sui lavoratori del comune, ma solo per un povero coglioncello come me. La sinistra dovrebbe difendere il lavoro, la dignità del lavoro e di quello che produce, non le cose in quanto tali cioè, ma in quanto c’è stato qualcuno che s’è dato pena di farle. E a maggior ragione il lavoro pubblico, che non è un costo ma un valore, un bene comunitario. Invece si privatizza, perché gli stipendi sono costi e c'è la crisi e c'è l'Europa e che ci vuoi fare.... La sua osservazione era semplice, giusta, figlia di un buon senso che credevo non esistesse più. Invece eccolo lì.
Alla discussione si aggiunge un ometto anziano, con un cappello a tesa larga, nero, e due occhietti azzurri e vispi. Si muove un po’ lentamente, è abbastanza anziano, ma parla deciso e con voce (e parole) ferme. Dice:
“Io gli voglio scrive una lettera al Corriere perché tempo fa hanno fatto un articolo su un repubblichino morto e io non c’ho niente da ridì, ognuno ha fatto le sue scelte quand’era il tempo e s’è preso le sù responsabilità (!) ma nell’articolo ha parlato dei partigiani dicendo che… non mi ricordo che verbo ha usato ma era spregiativo… imperversavano…no com’era? Sà io sò presidente dell’Anpi di Colle e questa cosa proprio non m’è andata bene”
Penso a Veltroni. Penso al presidente dell’Anpi. Cosa hanno condiviso? Mi dice di essere dentro Sinistra Democratica e capisco la sua scelta: molto del buono che è rimasto del Partito è lì. Scambio due parole con la figlia, molto giovane, più o meno la mia età. Mi dice che vogliono rifondare La Martinella, storico giornale socialista di Colle, nato verso il 1870.
“Colle è stato il primo comune socialista d’Italia” mi dice l’uomo.
Eccoci qua. Due generazioni a confronto: una, la sua, che credeva di essersi lasciata il peggio alle spalle e una, la mia, che ha la brutta sensazione che al peggio non ci sia mai fine. Se ha ragione la sua ha torto la mia e viceversa. Ma non è importante questo. La figlia mi chiede politicamente cosa succede, cosa si fa?
Io le dico che non ho tessere ma non so perché e le dico che lei la storia ce l’ha in casa ed è giusto che la prosegua mentre io devo ancora trovare il punto di partenza.
“Giusto” dice lei ”il punto di partenza è l’Anpi.”
L’associazione dei partigiani ha cambiato statuto ed ora ha aperto anche ai giovani. Penso che mi tessero. Penso che non mi tessero. Non mi sentirei all’altezza. Loro hanno preso il mitra e non era cosa che facessero tutti. Essere antifascisti, o antifa, come si dice ora, dopo la guerra è facile. Esserlo prima e durante era altra cosa. E poi ora cosa devo fare? Ammazzare i fascistelli allevati all’ombra di mediaset con il mito del calciatore virile e forzuto? Scontrarmi? Parlare? Di cosa?
Bisi non manca mai di riportare sul Corriere di Siena i comunicati di Casa Pound, tra cui quello del lutto per Jeorg Haider: “La gioventù senese saluta Jeorg Haider” si intitolava. Tocca a noi poi andare a bere una birra al tavolo accanto a bravi giovani, non si drogano e non bestemmiano, per carità, ma purtroppo difendono il totalitarismo fascista e, tra le righe, pure quello nazista.
Guardo Bisi e mi chiedo ancora: chi è quest’uomo? Mi rendo conto solo ora che quello non è neanche del Piddì. Il direttore del quotidiano locale che dovrebbe fare riferimento alla sinistra è tutto fuorché un uomo di sinistra.
Troppi dubbi, troppe poche cose ancora so. Mi rimane ancora qualcosa da dire però. All’incontro c’era un sacco di gente e tanta è rimasta scontenta. Buon segno: vuol dire che volevano sentire qualcosa che non hanno sentito dire. C’era gente che evidentemente cercava un punto di riferimento politico e lo cercava a sinistra. Buon segno. Lo cercava all’Arci. Buon segno anche questo: bisogna prendere le istituzioni storiche e non aver paura di rifondarle e riciclarle. Fare società è l’unica ancora di salvezza secondo me. Penso che tira brutto, è vero, ma penso anche che ci sono un sacco di associazioni piccole e grandi che cercano di portare avanti messaggi, progetti, memorie, principi. Mi dico che è positivo, perché è l’inerzia mediatica e consumistica che va combattuta e ho visto un sacco di gente agguerrita negli ultimi tempi. Non bisogna cullarsi nelle false certezze ma neanche darsi per vinti. Contarsi e organizzarsi. Quello che dobbiamo fare.