mercoledì 13 febbraio 2008

BELLEVILLE: BIRRA E KEBAB-FALCE E MARTELLO

Parigi è una città che è strano chiamare con lo stesso nome con cui si chiama Siena, città, ma la stessa considerazione vale anche per Londra, Berlino, Roma, figuriamoci poi Tokio, New York.... A dire il vero, però, il suo tratto più caratteristico è forse questo, che non ha quasi mai l'aspetto della metropoli: non ti risucchia nè ti fa sentire una merdina. Certo, la gente ti urta mentre cammini e non ti guarda in faccia. Però hai il modo di ritagliarti il tuo spazio perché le strade, i palazzi, le case, sono ad una misura ragionevole: sono costruzioni che salvo qualche eccezione, soprattutto nella parte ovest, cioé quella a sud della torre Eiffel, si fanno guardare e attraversare con un occhio e un passo umani.
Nella mia personale e per ora rudimentale geografia di Parigi ho individuato la mia zona preferita, Belleville.
Belleville è un quartiere popolare, nel 20°, pieno di locali, bar, e ristorantini che vendono, soprattutto, il junk-food etnico che qua domina, l'hamburger dell'altra metà del mondo: Kebab e patatine.
Leo ha fatto amicizia con questi kebabbari, due tipi turchi, uno rasato e uno con il codino e gli occhiali da secchione, che lo hanno preso in simpatia e di conseguenza trattano benissimo anche me. Ci regalano birre e caffé ("Come fai a mangiare senza bere il caffé e dopo una sigaretta?") e ci fanno lo sconto. Il tizio con il codo è arrivato illegalmente in Francia proprio dall'Italia, sbarcando a Brindisi, e rimanendo imboscato per quattro mesi in Puglia. Il racconto nel dettaglio non lo conosco, però vedo il tipo ridere di continuo, soprattutto quando fa suonare una piccola campana che tiene dietro al bancone -da un colpo ogni volta che uno entra o esce dal locale, senza altro motivo apparente che il suo divertimento e quello del compare- dicevo, lo vedo sganasciarsi e mi viene da pensare che deve avere delle ottime ragioni per prenderla a ridere così, a caso.
Il tipo ha preso Leo in simpatia perché l'ha visto andare là a mangiare da solo, per dei mesi, senza sapere praticamente una parola di francese. Forse l'hanno visto in difficoltà, forse hanno sentito qualcosa di simile -magari un'indole mediterranea comune, vai a sapere- però l'hanno sempre trattato di lusso, e me con lui. La prima volta che ci sono andato, li ho visti preparare un piatto da asporto per un tizio, visibilmente un barbone -un clochard, come si chiamano qua- e darglielo salutandolo e accordandosi per il martedì successivo. Semplicemente, danno da mangiare -una cosa ragionevole, ovviamente, non sono l'esercito della salvezza- a chi ne ha bisogno e non può procurarselo altrimenti.
Uno potrebbe pensare che ciò sia casuale: invece non credo. A quanto ne so, Belleville ha perso recentemente lo scettro di peggior quartiere del centro di Parigi a favore di Barbés, zona che conosco meno ma che scoprirò, col tempo. E' stato ed è ancora un quartiere di immigrazione radicata e di lavoro, di miseria e di criminalità, ma anche di radicalimo politico. C'è un locale, di cui non conosco il nome, con una facciata molto particolare, rossa e bianca, sembra una specie di stazione di pompieri, con le scritte sulla facciata fatte di quadratini colorati di pietra. Sopra una delle porte d'ingresso, quella centrale, c'è una striscia di cemento grigio con una grossa falce e martello. Credo fosse la sede del partito comunista, che oggi sembrerebbe diventata un locale ad uso ricreativo. Piccolo il mondo.
Qua nei locali dominano funky e latino americano, o una specie di rock molto cantautoriale, ma fanno concerti allucinanti in posti piccolissimi (a proposito, a marzo ci sono Mars Volta e Blonde Redhead in un posto grande come la Corte); la gente ha bisogno di calore e di sbornie. L'altra sera c'era un concerto di una tizia, solo voce e chitarrista acustico d'accompagnamento, che faceva R'nB. Sembrava Lauryn Hill, anche se un pò meno potente, ma era uno spettacolo, una voce assurda, e faceva pezzi suoi; ha chiuso con dock of the bay di Otis Redding. In quel bar, il Café des sportes, Otis Redding, James Brown e Barry White sono istituzioni.
Ho notato che nelle Università tipo quelle di Ale e di Leo -non la mia, che non era neanche un'università fino a qualche anno fa ma un Ecole, cioé un istituzione superiore, che odio di già- la questione dei diritti sociali e quella dell'integrazione dei figli degli immigrati sono saldate in un pugno chiuso, che mi sembra anche un pugno bello robusto. Molti ragazzi sono nati qua e non riescono a sentirsi francesi al cento per cento. Ma non è un problema di sentire o no. Se prendi la metro da casa mia, verso una qualunque delle periferie, vedi il colore della pelle di chi ti circonda che diventa via via più scuro, in una proporzione che deve essere misurabile in un rapporto matematico. Poi finiscono gli arrondissement, finisce Parigi, e ci sono le Banlieu. Il trucco sta nel non pensare che facciano parte di Parigi. Se non le consideri parte di Parigi, allora è la città perfetta. Se invece ti accorgi che le cartine e le mappe che tieni in tasca finiscono tutte là, alle Banlieu, e che ci manca solo la scitta Hic sunt leones, allora qualche dubbio ti viene. Il fatto è che c'è pressione, una pressione mostruosa, dalle zone intorno al centro. C'è miseria e, non ci sono cazzi, quella non è considerata Parigi. Eppure, la maggior parte delle persone, anche quelle che lavorano in centro, vivono là. Vengono tutti i giorni da quelle zone. Nei treni che vanno in periferia, i train de banlieu, vedi la gente comportarsi in modo diverso rispetto alla normale metro. Quando uno sale sul vagone, soprattutto se è mezzo vuoto, si guarda sempre intorno con dei rapidi movimenti della testa, come a cercare qualche eventuale fonte di pericolo. Se non c'è nessun pericolo in vista, allora si rilassa e, come nel metrò, affonda in qualche musica proveniente dal lettore Mp3, rigoroso, oppure in un libro. Senza mai posare lo sguardo su nessuno. Questo è il metrò: se posi lo sguardo su qualcuno, irrimediabilmente ti arriva un'espressione interrogativa del tipo: "Che cazzo vuoi?". Non è un luogo dove ci si rapporta, si è solo parte del paesaggio urbano. Come un passamano, o un ostacolo. Per questo la gente ascolta la musica, ma c'è un fenomeno più sorprendente: sembra che molte persone abbiano imparato a rimanere in uno stato di dormi-veglia esattamente commisurato al tratto che devono percorrere. All'improvviso, li vedi riaprire gli occhi di scatto, alla loro stazione, dopo qualche minuto di sonno apparentemente vero. Ma il vero problema è che in tutto questo tempo sono stati in piedi.
Dicevo dei figli/nipoti degli immigrati: qua teoricamente c'è spazio per tutti. L'università costa relativamente poco (sui 200 euro l'anno, senza agevolazioni), ci sono aiuti per chi prende in affitto una casa, e così via. Eppure, qualcosa che non va dev'esserci. Se vai a studiare in una biblioteca centrale, zona Sorbona, la percentuale di neri o arabi cala fino ad approssimarsi allo zero. E la cosa non è reale, non è credibile, perché se vai nei campus delle università periferiche, il rapporto si rovescia.
Comunque, tornando a chiacchiere più confortanti, ci sono anche capolavori come il Centre Pompidou, quel mattone gigante di vetro e acciaio con quel tunnel sul fianco, che sembra una specie di lombrico/robot che ci si arrampica sopra. Non è tanto il museo che colpisce, quanto la biblioteca: spettacolare, con libri, giornali, archivi digitali e persino televisioni con programmi da tutto il mondo, in ogni lingua, visibili liberamente - ma liberamente nel senso di gratis, non nel senso che chiunque tu sia non importa, basta che paghi. Non ci sono solo studenti, ci vedi gente di ogni tipo, clochard inclusi, andare là a passare un pò di tempo alla tele o su internet, oppure a leggere e studiare le cose più svariate. E' uno dei pochi posti privi di burocrazia all'accesso, dove non vogliono tessere, permessi, soldi. La mia università ha una biblioteca, ma io non posso andarci, perché è riservata ai dottorandi: peccato, speravo di poter avere qualche privilegio e permettermi così di guardare qualcuno dall'alto in basso. Come quella vignetta di Altan, con il solito omino mostruoso che dice all'altro, più o meno:
"Il mio sogno è andare in paradiso e poi fare tié a quelli che vanno all'inferno"
Ah già, l'Italia...