giovedì 16 aprile 2009

LETTERA

Pubblicata su voglio scendere

"Queste sono delle vittime innocenti. Vittime di farabutti che hanno speculato sull’edilizia.”Ha detto così il padre di uno dei ragazzi vittime di questo terremoto.Io ero lì, a L’Aquila. Dormivo tranquilla, un po’ perché in fondo con le piccole scosse eravamo abituati a convivere, un po’ perché casa mia era costruita secondo le norme antisismiche, casa mia era un palazzo nuovo.Quella notte tanti altri ragazzi come me sono andati a dormire con la mia stessa tranquillità. La differenza tra me e loro è che io sono ancora viva. Loro no.Io sono viva perché casa mia era davvero antisismica. E loro sono morti perché…. già, perché sono morti?Perché edifici teoricamente nuovi si sono sbriciolati più velocemente di costruzioni risalenti al 1500 (o addirittura al 1200)? Io non credo, come qualcuno ha detto, che porsi domande di questo genere rappresenti una mancanza di rispetto nei confronti delle vittime.Ricordo che, di prima mattina, una mia vicina di casa che possedeva un’auto si era recata alla questura lì vicino. Volevamo informarci se potevamo dare una mano ai soccorsi, sapevamo già che c’erano dei morti e ci sentivamo inutili a stare fuori dalle case, in pigiama, in balìa della paura. Questa ragazza, una volta entrata, si è trovata davanti un ufficiale che stava lì seduto a girarsi i pollici; questo signore le ha detto che per ora non si sapeva nulla, che quella sera, in un campo sportivo, si sarebbe tenuta una riunione aperta alla cittadinanza; lì si sarebbero coordinate le azioni di soccorso, chi voleva dare una mano avrebbe dato il nominativo e poi si sarebbe deciso chi doveva fare cosa…ma come?? Mesi di sciame sismico, e nessuno aveva pensato a stabilire un piano nel caso fosse successa una cosa simile?? Bisognava attendere la sera dopo il disastro???Una ragazza che ha perso il fratello nel crollo della casa dello studente ieri ha detto “I nostri genitori ci mandavano qui a studiare…non a morire.” Non credo sia una mancanza di rispetto sottolineare che, come in tutte le catastrofi naturali, come nelle guerre, anche stavolta le prime vittime sono i poveri. I ragazzi che vivevano nella casa dello studente erano lì perché avevano vinto una borsa di studio. Erano lì perché erano delle persone meritevoli, non dei figli di papà viziati che stanno all’università per divertirsi. Le loro famiglie non erano in grado di mantenerli, perciò lo Stato avrebbe dovuto garantirgli il diritto allo studio.Gli ha garantito il dovere alla morte.Quel palazzo era del 1980. Ed era stato ristrutturato solo due anni fa. Eppure, l’intera parte posteriore è crollata. Ma non è una sorpresa per alcuni dei ragazzi, che giorni prima del crollo avevano segnalato la presenza di crepe nell’edificio, che durante le scosse dei giorni precedenti avevano più volte contattato i vigili del fuoco, ma non avevano ottenuto risposte, che lamentavano la totale assenza di scale d’emergenza.Niente scale d’emergenza, in un edificio concepito per ospitare 150 persone… e se la tragedia non fosse successa in un periodo così vicino alle vacanze di pasqua? e se invece degli 80 studenti che vi si trovavano, l’edificio fosse stato pieno?Uno dei soccorritori che scavava tra le macerie della casa dello studente, intervistato, ha esclamato con amarezza: “Ma quale cemento armato, questo, due colpi di pala e si sbriciola tutto!...”Le parti più nuove dell’ospedale San Salvatore (le prime a crollare) sono state costruite da un’impresa nota come IMPREGILO, la stessa impresa responsabile dello scandalo della spazzatura a Napoli (che ci ha riempito d’orgoglio con il resto del mondo) e la stessa che, a quanto sembra, avrà affidati i lavori per il ponte sullo Stretto di Messina.La più grande ditta produttrice di cemento armato in Italia è da mesi sotto sequestro, accusata di rapporti con la mafia e di truffa, ossia di rubare, impiegando pochissimo cemento e troppa ghiaia e altri materiali inerti negli edifici che costruiva.Nelle intercettazioni si sentono i costruttori fare dialoghi del tipo:“Quanta sabbia vogliamo mettere oggi? E quanto pietrisco?” “Ma non potremmo fare le cose a norma almeno questo mese?” “No no, viene a costare troppo…”E’ UNA MANCANZA DI RISPETTO DIRE CHE QUESTI SONO DEGLI ASSASSINI, CHE DEVONO MARCIRE IN GALERA, CHE BISOGNA FARE IN MODO CHE NESSUNO, MAI PIU’, PER IL RESTO DEI LORO GIORNI, GLI CONSENTA DI SVOLGERE IL LORO LAVORO?Non credo neanche che abbia mancato di rispetto il giornalista che, durante la conferenza stampa, ha chiesto al nostro presidente del consiglio perché i soldi del “Piano Casa” non erano stati usati per rinforzare gli edifici già esistenti, invece di costruirne di nuovi.“Non abbiamo la bacchetta magica… mica possiamo fare tutto antisismico….” È stata la risposta.È vero, non hanno la bacchetta magica. Hanno sei miliardi di euro per costruire il ponte sullo Stretto di Messina. Un progetto che gli architetti più famosi del mondo hanno definito irrealizzabile. Un’opera che non starà mai in piedi. Ma si sa, che gli architetti famosi sono tutti ex agenti del KGB.E poi, già, il Piano Casa… ma in quanti sanno che il Piano Casa elimina il ruolo dei comuni nel controllo della stabilità degli edifici, ruolo delegato esclusivamente al proprietario e al progettista? E se il proprietario e il progettista decidono di andare al risparmio, chi gli impedirà di fare i loro porci comodi?Ma si sa, l’Italia è un Paese dove si indaga, fino a che non si tocca uno importante… allora si cambia la legge.Come dice il prof. di urbanistica Antonello Boatti, le norme antisimiche possono essere applicate anche per recuperare edifici antichi…le università se ne interessano da tempo. Ma naturalmente, queste tecnologie richiedono denaro, e in Italia i fondi alle università vengono tagliati.A piangere ora siamo bravi tutti. Chi non piangerebbe alla vista di una madre che si dispera sulla bara del figlio? Chi non proverebbe rabbia? Purtroppo, l’Italia storicamente è un paese che batte i record per le indignazioni più brevi del pianeta. Pian piano, la gente ritornerà alle proprie vite, a lamentarsi del tempo e dell’inflazione…ma nelle famiglie che hanno perso un figlio, un fratello, un genitore, quel posto vuoto a tavola ci sarà per sempre, ogni giorno; quei sorrisi giovani e pieni di vita, gli abbracci e le carezze di quei ragazzi, saranno per sempre una mancanza lacerante nella vita di chi li ha amati.E quel qualcuno (perché qualcuno c’è di sicuro) che ha la responsabilità di tutto questo, dovrà pagare per le vite che ha spezzato. E noi, studenti sopravvissuti, non dovremo avere pace finché questo non avverrà. Il nostro fiato sul collo sarà la loro tortura. Come dice Marco Travaglio, tante volte è stato detto “Mai più”, fino al terremoto successivo. Stavolta, nessuno deve dimenticare.
Noemi Alagia
Studentessa del secondo anno in Tecnica della Riabilitazione Psichiatrica, L’Aquila

martedì 14 aprile 2009

I VERI PATRIOTI

Da un pò di tempo a questa parte si notano alle partite di calcio dei tricolori con su scritto, rigorosamente in nerissimo, il nome della città di provenienza del gruppo ultras, oppure il nome del gruppo, il quale può essere parte più o meno organica di una tifoseria organizzata. Sono simboli fascisti, e il piccolo stadio della minuscola Siena non fa eccezione, poichè è possibile vedervi, in occasione delle partite della robur, il tricolore solcato da una scritta in nero: "Gruppo d'azione Siena".
Ora, la gente di sinistra, come me, è storicamente diffidente nei confonti del tricolore, tra le altre cose, per ragioni filosofico-politiche, vedi la concezione marxista della nazione (sembra un argomento tanto astratto, mentre invece è molto radicata nella gente comune; tempo fa ho conosciuto uno spazzino che mi disse, parlando del giornale "La Nazione": "Io non posso nemmeno vedè il titolo..."). L'appartenenza nazionale, secondo questa visione (che in parte condivido) è una sovrastruttura che ha come effetto quello di dividere i lavoratori allineandoli militarmente ai voleri dello stato e di chi lo controlla, cioè la borghesia. Questo spiega la diffidenza da parte della sinistra verso i simboli e le identità nazionali: il socialismo ha sempre avuto una vocazione internazionalista.
Soprattutto però, almeno in Italia, c'è un problema di fondo con lo Stato, o meglio, c'è un gigantesco problema nel rapporto tra politica e Stato. Per i partiti italiani, lo stato è sempre stato un fortino da espugnare, una meta da conquistare e da piegare ai propri principi; da notare che "piegare lo stato ai propri principi" significa sostanzialmente usarlo per favorire i propri sodali, che siano compagni di militanza, parenti, oppure connazionali definiti per etnia o religione poco importa.
In Italia lo Stato non è un soggetto terzo rispetto a due o più fazioni politiche, che ne regola la contesa in base a principi riconosciuti come inviolabili da tutti i contendenti: in Italia lo Stato è considerato dalla politica come un sistema di gestione del potere e della ricchezza che va conquistato, anche con la forza ed il ricatto, se necessario, per usarlo a favore proprio e dei propri simili. Berlusconi ha fatto questo. Per certi versi anche il P.C.I. ha portato avanti un progetto simile, sebbene per finalità decisamente diverse e più condivisibili, almeno per me, rispetto a quelle dell'attuale pres. del cons.. La Lega fa questo quotidianamente. Ed i fascisti e neo-fascisti, che gli piaccia o no sentirselo dire, fanno lo stesso. Altrimenti, non si sentirebbero in diritto di prendere un simbolo che ci dovrebbe rappresentare tutti come italiani per vergarci sopra il nome della propria città o del proprio gruppetto di fanatici. Io non lo farei. Penso alla bandiera di Siena, la Balzana bianconera: se io la prendessi e ci schiaffassi sopra una stella rossa, verrebbe fuori una roba esteticamente superiore, ma eticamente scorretta. Non tutti si riconoscerebbero in quel simbolo e molti sentirebbero come un sopruso l'aver sovrapposto un simbolo che rappresenta una parte ad uno che rappresenta un tutto.
I fascisti di oggi rimarcano continuamente la loro natura eversiva sporcando con i loro simboli mortiferi qualcosa che in teoria dovrebbe essere patrimonio di ciascuno. Strano che a farlo siano forze politiche che rivendicano la sacralità dei simboli e dei rituali.
Per chiudere, mi viene in mente la conclusione del volume a fumetti di Staino sull'eccidio del Montemaggio: la storia si conclude con una sequenza di spari, dei quali si leggono soltanto i "Bam", i quali spari colpiscono l'aquila fascista al centro del tricolore. L'aquila che tiene il fascio viene colpita, e colpo dopo colpo cade. La sensazione è che venga rimossa come se fosse stata un'aggiunta, un'appendice come di sporcizia, o forse di malattia. Alla fine rimane solo il tricolore. E' una metafora splendida, se solo tutto fosse andato in quel modo. Invece no. Anche se sembra assurdo, c'è chi rivorrebbe quell'aquila.
Come disse il Sardelli: Il futuro era ieri. Pazienza. Solo che dispiace per chi ci ha creduto e si è sacrificato.

mercoledì 8 aprile 2009

CITAZIONE DEL GIORNO

"Il giornalismo oggettivo è una delle ragioni principali per cui ai politici americani è stato permesso di essere tanto corrotti e tanto a lungo. Non si può essere oggettivi su Nixon."
Hunter S. Thompson. Non so pèerchè ma mi fa venire in mente Il Giornale.

domenica 8 marzo 2009

Da Repubblica di oggi:

"I numeri dicono che nel 2003 il Tg1 ha dato notizie di cronaca nera per l'11% del suo tempo, il 19,4% nel 2006, il 23% nel 2007. Il Tg2 è passato dal 9,7% del 2003 al 21% del 2006, fino ad arrivare nel 2007, al 25,4%. Il Tg3 è la testata che registra il minore aumento, passando dall'11,5% del 2003 al 18,6% del 2007. Sulle reti Mediaset l'aumento è maggiore: per Studio Aperto, la percentuale è stata pari al 30,2 della durata totale dei tg del 2007, contro il 12,6% del 2003. Il Tg5 è passato dal 10,8% al 25,7%. Il Tg4, malgrado il raddoppio negli ultimi 5 anni, ha avuto l'incremento minore, dal 10,2% del 2003 al 20,9% del 2007."

Ma serviva davvero qualcuno che lo misurasse?

mercoledì 25 febbraio 2009

METEO SARDEGNA

"Questo tempo fa Cappellacci"

(E' un modo di dire senese, per quanto ne so. Lo so, la cazzata mi è arrivata in ritardo)

lunedì 23 febbraio 2009

QUADROPHENIA


Tra le mie numerose qualità vorrei citare quella di arrivare per ultimo in diversi campi, ma soprattutto in ciò che concerne musica e cinema. Perciò vorrei buttare là due parole su un film abbastanza recente (1979) e poco noto, Quadrophenia, con il preciso intento di dire cose che chi l’ha visto credo capisca da solo, mentre, a chi non l’ha visto, spero di rovinargliene la visione.
Quadrophenia racconta, centrando la narrazione su Jim, un ragazzo inglese, della cosiddetta battaglia di Brighton, quando le due “gang” giovanili, Mods e Rockers, dettero vita ad uno scontro piuttosto violento nella piccola località marittima che ha dato il nome all’episodio.
Il film coinvolge perché, almeno a me, non capita spesso di vedere messo nero su bianco un certo modo di rapportarsi tra ragazzi, con botta e risposta molto realistici, umorismo spontaneo e immediato. Sembra davvero esserci poco di scritto nei dialoghi, o almeno così pare, e si ha spesso la sensazione di trovarsi di fronte ad uno scambio vero, fino, a tratti, ad avere la sensazione più del documentario che del film. Rimane comunque sempre viva, fino all’ultimo, la spontanea simpatia che si prova per i personaggi, tutti carismatici, ben caratterizzati, acuti e con un bellissimo senso dell’umorismo. Geniali come solo le persone vere sanno essere quando affrontano ogni difficoltà con una battuta sempre pronta.
Dal film non si deduce niente di specifico del modo di pensare dei Rockers, poiché al centro della narrazione ci sono, appunto, i Mods, ma sembra che le differenze tra i due gruppi consistano in fattori sostanzialmente estetici: completi classici e scarpe di vernice con giubbotto sul verde tipo rude-boys per i Mods, che si spostavano esclusivamente su Vespa e Lambretta, e giubbotti di pelle, stivali, jeans e capelloni per i Rockers, più sporchi e più americani, che si spostavano su grosse motociclette.
Ora, è possibile che Mods e Rockers fossero (tra) le prime forme relativamente autocoscienti e organizzate di controculture o sottoculture giovanili. I ragazzi sono tutti molto giovani ma sembra che non vadano più a scuola, almeno a giudicare dai protagonisti che comunque lavorano, in genere in piccoli posti, tipo cassiera, fattorino, roba così. A monte, c’è un conflitto con le famiglie, latente o esplicito, e c’è anche volontà di contestazione delle istituzioni e del potere, anche se generica e non politicizzata. Da notare è che i protagonisti non provengono da famiglie povere, i genitori non sono ricchi borghesi ma sembrano piuttosto impiegati e comunque non disagiati economicamente: Jim possiede una camera tutta sua, una lambretta di proprietà, e benché faccia il fattorino non sembrano mancargli soldi per vizi vari, soprattutto vestiti e droghe, che nello specifico sono pasticche, probabilmente amfetamine. Il protagonista non è quindi il prodotto di una condizione di particolare disagio, almeno non economico. I quadretti familiari abbozzati dalla regia puntano il dito, semmai, sulla piattezza televisiva di una vita perfettamente inquadrata e un po’ triste. La ribellione di Jim si scaglia sempre verso i rappresentanti principali di questa normalità insostenibile, genitori e datori di lavoro, la cui autorità è vissuta sempre come oppressiva e penalizzante per i desideri e la realizzazione individuali.
Siamo, mi pare, nel ’64, ed il ’68 sta per arrivare. I Mods, forse, sono stati i primi figli del baby boom (prima degli Hippies) ad incazzarsi contro la società che li ha prodotti, ma senza una coscienza chiara di ciò a cui andare contro, del come farlo, e soprattutto del cosa fare in alternativa. Sono stati, forse, la prima generazione cui sono stati dati tutti i mezzi materiali necessari al successo ed al benessere, a raggiungere la felicità, senza però che di questa felicità venisse loro data una dimostrazione concreta. Una volta sperimentata in famiglia l’alienazione e la solitudine che il benessere materiale si porta dietro (la TV insegna) Jim, come molti suoi coetanei, ha cercato un’altra comunità di appartenenza in cui il piacere e la felicità scorressero liberamente (“We are mods We are mods We are We are We are mods…”).
La battaglia di Brighton, sequenze di immagini davvero spettacolari in cui non c’è un dettaglio che dia la sensazione di una carnevalata, consiste di una serie di scontri itineranti tra i due gruppi, dalla spiaggia fino alle vie della piccola cittadina, dove alla fine alcuni autobus della Polizia riescono ad accerchiare i ragazzi che nel frattempo stavano devastando un po’ di tutto. Molti, tra cui Jim, vengono arrestati e portati via, incluso il personaggio più influente, il più fico, il più tosto, il più Mod: Asso, magistralmente interpretato dalla rigidità scenica di Sting. Seguono processo e rottura definitiva di Jim con la famiglia. Nel frattempo il protagonista ha intrecciato un rapporto con la ragazza più carina del gruppo (hanno scopato in un vicolo durante gli scontri), di cui era innamorato da tempo, e che però gli viene soffiata dal suo migliore amico. Deluso da tutto e da tutti, Jim si è licenziato e non ha testa che per le pasticche, che ingurgita a nastro, insieme a un bel po’ d’alcool. Sta svalvolando e infatti comincia a vivere per strada finché, vagabondando, non trova posteggiata una Vespa che riconoscere essere quella di Asso. Aguzzando lo sguardo, Jim vede Asso nel pieno svolgimento delle sue funzioni: è un facchino d’albergo che trasporta valigioni su valigioni agli ordini di fior di quattrinai e di odiosi superiori, che il nostro Sting palesemente odia ma ai quali, nonostante gli sguardi in cagnesco, non può che obbedire servilmente. E’ il momento decisivo. Bisogna infatti considerare che poco prima, Jim aveva detto alla ragazza, la quale lo aveva scaricato poiché secondo lei stava diventando un pazzo, testualmente: “Non so che mi succede… è che mi sembra tutto sbagliato tranne quello che è successo a Brighton e il processo.”
(Per la cronaca: il processo era stato una specie di farsa chiusasi con una multa che Sting aveva pagato con enorme strafottenza ad un vecchio parruccone di giudice.)
Il mondo di Jim crolla in pezzi. Il suo eroe, il più fico, il più duro (da ridere come tiene testa a tre o quattro poliziotti da solo, incazzato come nessun’altro), il più Mod, è sostanzialmente un servo e tutta la “modezza” del suo stile di vita non cambia questo dato di fatto. Un Jimmy a pezzi ruba la Vespa del suo mito e parte per una folle e decisiva corsa verso gli scogli, a tutto gas. Il finale non ve lo sputtano.

Ho omesso un passaggio del film, praticamente all’inizio, quando Jimmy incontra un suo vecchio compagno di scuola. E’ un personaggio importantissimo per il film anche se appare in due/tre scene soltanto. Jimmy lo incontra in circostanze particolari, senza che i due si vedano, e non si rende immediatamente conto che è abbigliato come un Rocker. Ma la peculiarità del personaggio è appunto quella di non essere un Rocker. “Sono tutte stronzate”, gli dice in sostanza, “siamo tutti uguali e Mods e Rockers sono solo cose fatte per dividerci.” Jimmy ribatte che non è vero e che lui si sente davvero diverso e che l’essere un mod è un modo per affermare questa differenza. Ma ecco che l’altro risponde con un’uscita imprevedibile e geniale: “Io sono entrato nell’esercito per essere diverso.”
Rivediamo il personaggio soltanto altre due volte: una quando Jimmy è nel garage di casa sua e l’amico lo va a trovare in moto: vedendo la moto, Jimmy teme un agguato dei Rocker e lo riceve impugnando una chiave inglese. Il tizio invece è gentile e gli attacca discorso sulla Lambretta, offrendosi di aiutarlo a risolvere un problema (i mods saranno anche più fichi, ma sui motori lo scettro appartiene ai Rockers). Nonostante tutto questo, Jimmy rimane diffidente. Rivedremo il tizio solo quando sarà pestato a sangue, mentre supplica un Jimmy inerme di aiutarlo mentre altri mods gli stanno letteralmente spaccando la faccia. A questo punto, Jimmy si limita a scappare urlando che non lo conosce.
Considero fondamentale l’uscita del tizio sull’esercito: i sodati portano infatti la divisa, che li divide dagli altri soldati e forse, soprattutto, dai non soldati, che però è chiamata anche uniforme, perché infatti li uniforma tra loro. A parte i giochi di parole: un pezzo di ciò che sta dietro agli “stili”, che siano di moda o non di moda, è proprio il bisogno di una comunità di cui sentirsi parte, con cui stabilire legami forti e disinteressati. Forse questa tendenza è più forte nella fase in cui una persona comincia ad emanciparsi dalla famiglia e/o dalla comunità di provenienza, per poi indebolirsi quando le sue energie cominciano ad essere assorbite dal lavoro e/o dalla famiglia. Ma non è detto. Certo è che il senso di appartenenza stimolato dai cori, dai colori e dalle uniformi, è qualcosa di potente, capace di parlare, spesso, alle zone più profonde e “rettili” del nostro cervello di umani e di farlo come nessuna parola e nessun ragionamento, spesso, sono in grado di fare. Forse è un po’ questa la ragione per la quale, a voler indagare razionalmente, le differenze sostanziali tra Mods e Rockers sono difficili da comprendere. Jimmy stesso capisce che la solidarietà tra Mods si esprime al massimo quando c’è da picchiarsi contro i Rockers, e questa solidarietà coincide con un principio da rappresaglia: “Voi avete pestato uno di noi e noi pestiamo uno di voi”: chi, come, dove, quando, diventano fatti irrilevanti, contano solo i colori, l’algebra elementare della faida, e, soprattutto, il legame che scatta e si rafforza in mezzo a tutto questo. Non è un caso che la ragazza di cui Jimmy è innamorato lo scarichi per il suo migliore amico, e che nessuno dei due si faccia grossi scrupoli: entrambi ritengono che Jimmy stia esagerando con le droghe, con le feste, sempre nel mezzo, sempre a fare casino. Mentre gli altri sembrano, in certe situazioni, saper mantenere una certa distanza dall’essere mods, riuscendo in qualche modo a dimetterne le vesti che, appunto, in fondo sono soltanto vesti, Jimmy sembra invece “crederci”, sembra sentire che c’è qualcosa di grosso, di importante ed eterno che li riguarda e li coinvolge tutti attraverso il loro essere mods.
Dietro a questa percezione che ha Jimmy del loro essere Mods c’è una tendenza alla ribellione contro una società gerarchizzata ed oppressiva, e questo è chiaro. Eppure l’essere Mods non offre una vera via di fuga a tutto questo, poiché anche il più mod di tutti, Sting, in fondo è solo uno che fa un lavoro da schiavo, che prende soltanto ordini da persone che odia, ma del cui denaro ha tuttavia bisogno.

La moralina che se ne può trarre, che farebbe felice ogni buon padre di famiglia, è che dalla vita non si scappa e prima o poi i conti con le necessità si fanno tutti, nessuno escluso. In effetti è qui il nodo nevralgico del discorso che volevo fare. I Mods, come gli Emo, i Punk, i Figli dei fiori, sono forme di aggregazione simili, anche se diverse nei contenuti e nei principi base. Tutte hanno una vena contestataria verso qualche istituzione (o contro tutte), e quindi un intrinseco valore politico. In Italia, per esempio, la politica ha aggregato spesso, soprattutto i giovani, in queste forme: fascisti e comunisti, soprattutto da giovani, lo sono tutti o quasi, anche se spesso più per gonfiare il petto che altro. La chiave è sentirsi inclusi, parte di qualcosa che va verso qualcosa, ma cosa e dove, spesso, sono questioni secondarie e non espresse nemmeno dai diretti interessati. Gli Ultras sono un altro esempio di quanto possa essere vuota e pretestuosa un’identità collettiva (appartenenza, fedeltà ai colori cittadini) che si pretende essere il presupposto dello scontro, mentre invece ne è il prodotto, poiché senza scontro, come senza cerimonia, senza culto dei morti, senza canzoni, quell’identità non esisterebbe affatto.


Le identità collettive sono un’arma potente, qualcosa con cui, soprattutto di questi tempi, bisogna fare i conti. Nel caso di Jimmy rimango ambivalente: da un lato ammiro il potenziale che i mods hanno, e la cui carica violenta e distruttiva non è che un aspetto tra gli altri. Dall'altro però ho la sensazione che tutta quell'energia sia sprecata. Jimmy contesta della società quello, grosso modo, che contesterei io, solo che non se ne rende conto. Un posto di merda e una vita destinata alla tristezza e alla solitudine del piccolo agio, quale quella ricevuta in eredità da lui va stretta. Jimmy però non ha cercato un modo di vivere alternativo e conforme ai suoi ideali e non l'ha fatto, credo, perché neanche sapeva quali fossero i suoi ideali: sapeva che era un mod, che aveva dei nemici, degli amici, e che la vita a cui era destinato non gli andava bene. Quello che mi viene da criticare a questi pseudomovimenti è esattamente questo: hanno la capacità di reagire, di sentire che ci sono cose che non vanno, ma non elaborano mai nulla, tutto si perde nei contorni fumosi della libertà di gusti, di pensiero, di espressione, di "stili di vita" ("Quadrophenia: A Way of Life"). Da praticare, ovviamente, solo nel tempo libero, perché quando si lavora si lavora, e bisogna obbedire. E più si è costretti a obbedire, più ci si incazza fuori e più si idealizzano quelle poche finestre di comunanza e solidarietà, affinità, gioia, che si provano insieme agli altri. Salvo poi trovarsi incazzati, in mezzo a qualche macello, senza aver capito bene come tutto sia cominciato e come sia stato possibile arrivare fin là. Si, la sensazione di Jimmy, alla fine, credo sia più o meno questa. Ed è esattamente il tipo di sensazione che non voglio (più) provare.

giovedì 12 febbraio 2009

CITAZIONE DEL GIORNO

"Io ho il diritto di scegliere la mia morte per il bene degli altri. Guarda caso, è quello che mi ha sempre insegnato la morale, e non solo quella laica, ma anche quella delle religioni, è quello che mi hanno insegnato da piccolo, che Pietro Micca ha fatto bene a dare fuoco alle polveri per salvare tutti i torinesi, che Salvo D'Acquisto ha fatto bene ad accusarsi di un crimine non commesso, andando incontro alla fucilazione, per salvare un intero paese, che è eroe chi si strappa la lingua e accetta la morte sicura per non tradire e mandare a morte i compagni, che è santo chi accetta l'inevitabile lebbra per baciare le piaghe al lebbroso. E dopo che mi avete insegnato tutto questo non volete che io sottoscriva alla sospensione di una vita sospesa per amore delle persone che amo? Ma dove è finita la morale - e quella eroica, e quella che mi avete insegnato, che caratterizza la santità?"

Umberto Eco, il cui articolo non condivido del tutto, ma mi sembra che in questo c'abbia ragione.

lunedì 9 febbraio 2009

CITAZIONE DEL GIORNO

" ...e il Pope somiglia a una candida nonna
parla di pace ma porta il frustino
tiene in bocca uno scudiscio
parla di vita e di morte ogni giorno
accende mutui sui culi degli altri
e a noi tocca pagarli
a tasso variabile
invariabilmente..."

Wu ming 1, L'istituzione dello stupro. Il testo completo è qui.

sabato 7 febbraio 2009

CITAZIONE DEL GIORNO

"Siamo l'esercito del surf siamo l'esercito del surf siamo l'esercito del surf, siamo l'esercito ... del sert!"

Le luci della centrale elettrica, grande progetto (non si chiamano più gruppi...)

mercoledì 4 febbraio 2009

CITAZIONE DEL GIORNO

See you all from time to time
Isn't it so strange
How far away we all are now
Am I the only one who remembers that summer
Oh, I remember
Everyday each time the place was saved
The music that we made
The wind has carried all of that away

[Vi vedo tutti di tanto in tanto
non è così strano?
Quanto tutti siamo lontano,
ora;
sono l'unico che si ricorda quell'estate?
Oh, mi ricordo
che ogni giorno, ogni volta, il posto era salvo
e la musica che facevamo...
il vento ha portato via tutto questo.]

Ho tradotto in libertà questa strofa di Long gone day dei Mad Season. Se anche le parole non sono esatte sono sicuro che il senso è quello. E voi ve lo ricordate il garage del Tarro, la Jodler, il torso nudo, il sudore? Sempre nudi, sempre sudati, si era, nella lunga estate del punk-rock.

giovedì 29 gennaio 2009

CITAZIONE DEL GIORNO

"Italiani! Cosa dire? Avremo l'esercito: un militare ogni bella donna. Chissà quanti militari avremo. Se facciamo questa regola, dovremo avere, per ogni mignotta, quanti presidenti del Consiglio?"
Beppe Grillo.

mercoledì 28 gennaio 2009

UN ITALIANO CHE STUPRA E' UNO STUPRATORE, UN RUMENO CHE STUPRA E' UN RUMENO

Che dire di gente, come quelli di Forza Nuova, che si indignano e vogliono linciare quattro stupratori a Guidonia ma rimangono indifferenti ai decenni di sevizie perpetrati da decine di prelati all'Istituto Provolo a Verona (vedi qui). Dove sono le folle che reclamano giustizia per i nostri figli? Perché la cosa deve essere trattata con tutta questa discrezione, evitando polemiche "che danneggerebbero per prime le vittime stesse", mentre dall'altra parte le NOSTRE donne sono prese e usate come bandiere da sventolare nel nome della pulizia etnica?
I fascisti mi fanno pena, soprattutto quando si raccontano le loro storie di eroismo, di impegno sociale. A loro delle donne non importa niente, come della religione o dell'Occidente. Vivono solo per eliminare la differenza in ogni sua forma.

giovedì 22 gennaio 2009

IL PATRIOTTISMO E' L'ULTIMO RIFUGIO DI UN FARABUTTO

“Il patriottismo è l’ultimo rifugio di un farabutto”,
S. Johnson.

“Ci serve gente del tuo stampo, capace di uccidere in modo animalesco. Se tutto va bene, finite sempre con l’essere chiamati eroi.”
V. Evangelisti, Black Flag.

A poche persone l’aforisma di Samuel Johnson, ripreso da Kubrick in Orizzonti di Gloria, o anche la citazione di Black Flag, calzano a pennello quanto a Zeljko Raznatovic, la famigerata tigre Arkan. Raznatovic è uno di quei personaggi in cui sembra esserci un’innata vocazione, quasi mistica, alla violenza ed all’arricchimento, fin dalla giovane età. L’uomo è uno dei tanti che si muovono in quella zona grigia tra crimine e politica in cui operano i servizi segreti: Raznatovic è infatti un famigerato rapinatore di banche conosciuto in tutta Europa, che mette a segno il suo primo colpo in Italia, a Milano, nel 1974. Nel frattempo però lavora anche per la polizia segreta jugoslava, che in cambio di un sostegno logistico (passaporti falsi, armi, denaro, barbe finte) gli commissiona diverse operazioni ai danni di jugoslavi emigrati e poco graditi al regime.
Negli anni ’80 fa ritorno a Belgrado dopo aver accumulato una discreta fortuna, e comincia a costruire la sua brillante carriera di mafiosetto locale. Diventa gestore di una discoteca, di una pasticceria (da cui si dice che ogni tanto provenisse qualche sparo di troppo), nonché capo degli ultras della Stella Rossa di Belgrado, mentre nel tempo libero non disdegna qualche omicidio su commissione. La parabola della vita di Raznatovic si sarebbe anche potuta concludere a Belgrado, nella condizione di relativamente stabile prosperità garantitagli dalle sue numerose attività. Una specie di Tony Montana nei Balcani, un pò Scarface un po’ Gatto Nero Gatto Bianco. Ma il destino aveva altri piani per la futura Tigre e di lì a poco la storia di un farabutto come molti altri si sarebbe trasformata in qualcosa di più grande.
E’ il 1990 e la Storia con la esse maiuscola sta per passare di nuovo dai Balcani dando vita alla feroce guerra etnico-nazionalistica che conosciamo, ma circa un anno prima che cominciassero gli scontri militari tra serbi e croati, la Storia, appunto, decide di annunciarsi in un occasione particolare: una partita del campionato di calcio un tantino tesa, tra Stella Rossa di Belgrado e Dinamo Zagabria. E’ il 13 Maggio del 1990. Per chi si ricorda del pacifico Zvonimir Boban, basti dire che l’allora capitano della formazione di Zagabria spaccò la mascella ad un poliziotto con una ginocchiata. Il clima è infuocato: lo stadio Maksimir diviene teatro di accaniti scontri tra le due tifoserie, aizzate dalla stampa e dall’opinione pubblica che si lascia coinvolgere ogni giorno di più dalla propaganda politica nelle campagne xenofobe e ultranazionaliste di Tudman dalla parte croata e di Milosevic da quella serba. Ancora oggi, fuori dallo stadio di Zagabria giace una lapide che recita:

“Ai sostenitori della squadra che su questo terreno iniziarono la guerra contro la Serbia il 13 maggio 1990.”

Di lì a poco, infatti, gli eventi precipitano nella guerra vera e propria.
Nel frattempo Raznatovic è riuscito ad unificare nel nome del nazionalismo serbo di Milosevic tutti i gruppuscoli di tifosi della Stella Rossa, che hanno assunto il nome di Delije, “eroi” in serbo. Ma la svolta politica è tra 1990 e 1991, quando la nascente Tigre viene scelta per dirigere il Centro per la Formazione Militare del Ministero per gli Affari Interni serbo, in virtù delle sue doti umane e per le reti di conoscenze particolarmente adatte che aveva sviluppato negli anni passati tra traffici di ogni tipo, carcere, e da ultimo in curva. E’ così che lo zelante Zeljko raduna, tra gli altri, diversi dei suoi ex compagni di tifo e comincia ad addestrarli, formando un corpo paramilitare di circa 3000 soldati che rispondono esclusivamente ai suoi comandi e che esordiscono in guerra verso la fine del ’91. E’ la famigerata unità “Tigre” (Arkan vuol dire felino in serbo-croato).
Non c’è modo di elencare tutti crimini commessi dall’unità tigre: Bijeljina, Brcko, Prijedor, Sanski Most, Cerska, Srebrenica, sono soltanto alcuni dei nomi di luoghi ricordati per i massacri che le tigri, tra gli altri, vi hanno commesso.

Dopo la guerra e con un cospicuo bottino accumulato grazie a traffici di armi, droga, puttane, il contrabbando di sigarette e il saccheggio di interi villaggi popolati oppure abbandonati dagli emigrati, la Tigre torna alla sua occupazione principale in tempo di pace, quella di gangster, ma con in più gli onori tributati ad un eroe di guerra: nel marasma bellico la sua stella aveva brillato, rossa di sangue, e nel caotico dopoguerra continua a splendere.
Nel corso degli anni ’90 la Tigre diventa presidente del FK Obilic, squadra di calcio che nel 1998 arriva addirittura a qualificarsi in Coppa dei Campioni. E’ a quel punto che le pressioni della stampa internazionale lo spingono a rinunciare alla presidenza (a favore della moglie): cominciano infatti ad emergere le gravi accuse di crimini di guerra e contro l’Umanità nei confronti delle unità comandate dalla Tigre. Passano ancora un paio anni e la parabola di Arkan si conclude come era prevedibile, in perfetto stile gangster: viene crivellato di proiettili nella hall di un albergo di Belgrado, il 15 Gennaio del 2000.
Nel 1998, anno in cui l’Obilic si propose sul palcoscenico europeo, i riflettori mediatici puntarono sul suo controverso presidente e di rimbalzo anche su Siniša Mihajlović, solare difensore della Lazio. Il giocatore non fu risparmiato dalla stampa italiana per le sue simpatie pubblicamente manifestate verso un macellaio delle proporzioni di Arkan ma, per sua fortuna, il simpatico Siniša fu generosamente difeso dalla curva bianco-celeste, che in occasione di una partita espose questo striscione:

“Onore alla tigre arkan irriducibili come noi”

Nel 1999, nel corso della crisi del Kosovo che porterà ai bombardamenti NATO contro la Serbia, Arkan dichiara:

«Che cosa posso dire di me? Che amo più di qualunque cosa la Serbia. Che sono un patriota, che credo in Dio e nella famiglia. Che sarei fiero, se necessario, di dare la vita per la mia patria e che non ho mai fatto del male a nessuno. Come i miei patrioti, le "Tigri"»

Ecco, a questo punto potrebbero seguire tonnellate di analisi e sentenze sugli ultras laziali o su Arkan, acute riflessioni sociologiche da salotto e quant’altro rientri nell’armamentario della mansueta sinistra da salotto. Partire dal presupposto che la violenza sia da condannare, manda già fuoristrada se ci si vuole rapportare a quelle realtà che fanno proprio della violenza e dello scontro i punti fermi della propria identità.
Non tutti condivideranno la mia opinione, che non è una teoria, e che prevede alcune eccezioni, ma spero che ci sia chi vuole discuterne. Per quel che vale, la mia idea è che vivere la propria vita come una faida continua contro gli altri e contro il destino è una cosa malata, e non solo in sé, ma anche perché l’odio si nasconde sempre dietro allo spirito di servizio verso una causa, verso altre persone, magari dietro la lotta contro alcune ingiustizie. Tutti gli apparati militareschi, fatti di linguaggi e regole, usati tanto dai partiti quanto dai gruppi ultras, sono fatti apposta per seguire ed obbedire i Grandi Combattenti tipo Arkan. Il problema è che tutti questi grandi combattenti, specie quelli che sventolano una bandiera o portano qualche stelletta sulla spalla, inseguono puntualmente un qualche sogno di gloria personale, il più delle volte spietato, tirannico e folle. Fin dall’adolescenza ho sempre avuto scarsa simpatia per le bandiere, più che altro per un’istintiva diffidenza verso questo serrare i ranghi, allinearsi e compattarsi su un fronte comune. Fin’ora, posso dire che l’esperienza ha rafforzato questa mia diffidenza perché più vado avanti, più mi trovo davanti a personaggi che professano queste grandi e incrollabili fedi, questa dedizione alle idee e alle identità, pancia in dentro e petto in fuori, salvo poi guardare loro le mani e trovarle sempre piene di merda e sangue (e/o soldi), mentre guardano dritti e fieri la bandiera che sventola, sull’attenti, e ci scappa pure una lacrimuccia, per la patria, per i fratelli morti, per la nonna che non c’è più. E’ facile credere in queste cose: basta radunarsi tutti insieme a una cerimonia, con un canto e qualche colore. E un nemico. E’ talmente facile Kredere con la Kappa Maiuscola che ci riescono praticamente tutti, e guarda caso meglio di tutti ci riescono alcuni dei peggiori figli di puttana in circolazione in tutte le epoche, in tutti i paesi, in tutte le curve.

CITAZIONE DEL GIORNO

"La legge di Dio non può mai essere contro l'uomo. La legge di Dio è sempre per l'uomo. Andare contro la legge di Dio significa andare contro l'uomo. Dunque, se le due leggi entrano in contrasto è perché la legge dell'uomo non è una buona legge e si rivelerà tale dai suoi frutti."
Severino Poletto, Cardinale di Torino

martedì 20 gennaio 2009

QUELLO CHE NON VEDIAMO DELLA PALESTINA


CITAZIONE DEL GIORNO

"Fluttuare come una farfalla, pungere come un'ape"
Mohammad Ali

lunedì 19 gennaio 2009

ARABESCHI FUMOSI E TERRIBILI

Io non credo agli ordini mondiali. Mi sembra un'idea assurda che ci sia un centro di potere che detta le regole fino ai quattro angoli della nostra sfera di roccia. Non ci credo perché non credo alle teorie del complotto: sono una versione post-moderna delle teologie e teodicee, cristiane e non, con le quali si spiega il male, il bene, ecc... Sono idee rassicuranti, perché promettono che in definitiva un'ordine c'è, e il fatto che tale ordine corrisponda allo stato attuale della lotta tra male e bene oppure alle strutture dell'economia o degli interessi delle multinazionali, poco importa. Un ordine c'è e tanto basta a rassicurare noi uomini.
Ora, il problema è che io credo che l'11/9 sia stato pensato e sostanzialmente realizzato da poteri e forze interne agli Stati Uniti. Alla fine di qualche serata fumosa mi metto a pensarci. Inspiro, espiro e lascio scorrere davanti ai miei occhi tutto l'imprinting subito negli ultimi anni, e forse anche prima.
Le torri che cadono con quella metodicità, con ordine. Il terzo palazzo che cade senza motivo, dal nulla. La facciata del pentagono integra dopo che qualcosa, non certo un boeing, l'ha colpita. Penso alle manifestazioni pro-america e a quelle contro la guerra. Schiere di manifestanti. Penso alla Fallaci, al diritto di tutti di disprezzare i musulmani e l'Islam in generale, garantito dagli ottusi cantori di ogni potere forte, quali quelli attualmente al governo. Penso alla sottile paranoia che si insinua in tutti al momento di salire su di un aereo, quando un barbuto e seriosissimo potenziale uomo nero si siede alla mia destra. A Colle Val d'Elsa bisogna decidere se edificare un centro islamico con annessa moschea, ma è rischioso, pericolo terrorismo: viene progettato in vetro perché all'interno non deve accadere nulla di sospetto. Il mondo è cambiato e la mia percezione di esso, forse, ancora di più. Da quell'anno in poi, quasi niente, a livello politico è andato bene. Il g8, che sembrava il preludio a qualcosa di grande, è stato solo il canto del cigno dei movimenti, (quasi) mai più rivisti. Pur aspettandoci tutti il peggio, le cose sono andate ancora peggio.
Sembra di intravedere un lucido disegno, a volte, in tutto questo. C'era un movimento, quello no-global, che faceva paura, quale che fosse poi il suo potenziale reale. Finito, morto. Soprattutto negli U.S.A., una generazione che poteva unirsi ed impegnarsi al fine di costruire una nuova coscienza politica di massa, è stata inquadrata nei ranghi mentali e fisici del patriottismo, dell'ennesimo stringersi gli uni agli altri contro un nemico comune.
Chiunque abbia partorito questo piano è stato un genio. Una volta che la versione ufficiale sull'11/9 si è affermata ed ha portato le conseguenze che conosciamo, quale peso potranno avere le voci di dissenso che pure sono crescenti? La verità verrà a galla, prima o poi, ci mancherebbe, ma sarà tutto inutile: le priorità politiche saranno altre e parlare di ciò che è stato non avrà più importanza, né senso.

Alla fine di serate ancora più fumose penso all'Italia ma la faccenda si fa più confusa. Penso al biennio '92-'93. Fine della Prima Repubblica. Tangentopoli abbatte un sistema di ingranaggi politici oliati da denaro, montagne di denaro. Corruzione nonché abuso di soldi pubblici. Nel frattempo, prende il via la privatizzazione del patrimonio economico pubblico. Senza che la maggior parte delle persone se ne renda conto, l'intera ossatura economica della nazione, che ha guidato lo sviluppo dal dopoguerra in poi, viene venduta, spesso svenduta, in cambio di rapporti politico-economici di favore. C'è l'Europa e l'Italia deve per forza rientrarci. Peccato che la filosofia con cui le nascenti istituzioni europee sono condotte sia una fede ottusa nel mercato, ma nessuno trova una formula convincente per opporsi, mentre un'intera classe politica attende il suo turno al patibolo mediatico e giudiziario. C'è un terzo filo conduttore in questo periodo. E' la Mafia. Si è tenuto il maxi processo a Palermo e grazie ad un sistema di rotazione dei giudici, le garanzie che i mafiosi credevano di avere sono saltate. Vengono condannati, 41bis, regime durissimo, soprattutto per chi credeva di farla (quasi) franca. La vicenda si fa confusa. La Mafia sfida lo Stato ed uccide, tra gli altri, i due giudici. Penso alla foto famosa, quella in cui sono seduti accanto e si sussurrano qualcosa. La mafia piazza bombe in luoghi casuali e drammatici. Milano: Via Palestro. Roma: San Giovanni in Laterano, San Giorgio al Velabro. Via dei Georgofili a Firenze. Cerca interlocutori nelle istituzioni, gente nuova, ma è difficile. C'è un clamoroso vuoto di potere e serve qualcuno che lo riempia. Ma ecco che dal nulla un imprenditore milanese, ben radicato in Sicilia, comincia ad avvicinarsi pubblicamente alla politica, alla destra in particolare. Non che la storia o le teorie politiche gli interessino molto, il fatto è che l'opposizione alla sinistra è l'unico contenuto che lo avvicina a quelle forze politiche disposte ad un accordo. Fonda un partito, una cosa nuova, che cavalca l'ingenuo e diffuso bisogno di rinnovamento. Intanto, le stragi si concludono con il fallito attentato a Roma, vicino allo stadio, in occasione di Lazio-Udinese. E' l'Ottobre del 1993 e mentre le stragi finiscono nasce Forza Italia.

Certe volte vedo tutte queste immagini che mi passano davanti, una dopo l'altra. Non si sistemano mai in una configurazione definitiva ma disegnano traiettorie, arabeschi precari e terribili. Come un equazione che può e deve essere risolta. L'unica paura è che risolverla non cambi nulla. Nulla.

CITAZIONE DEL GIORNO

“Dobbiamo usare il terrore, l’assassinio, l’intimidazione, la confisca delle loro terre, per ripulire la Galilea dalla sua popolazione araba.”
David Ben Gurion

martedì 13 gennaio 2009

Una stronzatina tanto per farsi una risata

Basta parlare male di Bocchino, che dopotutto un merito ce l'ha avuto: da quando c'è lui si può dire bocchino in televisione.

QUELLO CHE DOBBIAMO FARE

Il peggio

Ieri c’era in programma all’Arci di Fontebecci un incontro/dibattito dal titolo Ma che razza di parole usi? sul tema del razzismo nella comunicazione, con ospiti di riguardo: Dario Vergassola, Moni Ovadia e il presidente della FNSI, assente giustificato con tanto di presenza via cellulare microfonato, un momento molto Ballarò davvero toccante. Era sostituito da uno che non ho capito chi fosse, un giornalista, comunque. L’ospite di riguardo, almeno per me, era però il moderatore, Stefano Bisi, ambiguo e glabro direttore del Corriere di Siena (“Daino irrompe in un negozio e lo devasta” titolava una sua indimenticabile civetta di qualche anno fa). Il personaggio è uno di quelli ricoperti da un’unta e scivolosa patina di mediocrità mista ad ambiguità. In sostanza è uno stronzo, e per di più incapace di fare ciò che è pagato per fare.
Il Bisi lo aspettavo ad un dibattito pubblico da molto tempo, tanto per chiedergli un paio di cose proprio sul tema del razzismo. L’anno scorso infatti ci fu una polemica a partire da un articolo comparso sul suo Corriere dei Piccoli, in cui si tracciava una mappa della Lizza (centralissimo "parco" di Siena) in cui si descrivevano le varie “etnie” (etnie dell’est, etnie rumene, etnie rom? E l’etnia italiana com’è?) che occupavano i vari punti del parco. L’articolo lamentava poi la massiccia occupazione delle panchine da parte soprattutto delle badanti (ce l’hanno scritto in fronte?). L’articolo denunciava quindi la mancanza di spazio per i “nostri” anziani e per i bambini senesi.
Da notare che l’articolo fu scritto in piena emergenza immigrazione=delinquenza, quando sotto il governo Prodi eravamo minacciati ogni giorno da orde di banditi/stupratori, per lo più rumeni, o Rom che dir si voglia. Per fortuna, con la vittoria del Piddielle alle elezioni, l’emergenza è rientrata (Ai delinquenti devono essere bastate le facce dei nuovi governanti per abbassare la cresta…) Qualche mese dopo la polemica ci fu un nuovo articolo in cui il Bisi in persona reclamava la necessità di "fare pulito alla Lizza" dal degrado dei banchetti e delle libagioni tenute rigorosamente da extracomunitari (o neocomunitari) sulle panchine della Lizza. Una nuova polemica nacque per via del linguaggio truce che era stato usato: “fare pulito” suonava proprio male, per via della palese assonanza con il ben più sinistro concetto di “pulizia”, in questo caso, per l’appunto, etnica. Bisi rispose che chi si era indignato per il suo linguaggio era un ignorante perché lui intendeva “fare pulito”, ma inteso “alla senese”. Qui faccio appello alla conoscenza della mia stessa lingua nativa per dire che “fare pulito” vuol dire recarsi in un luogo e “sbaraccare” o “sparecchiare” diversa roba, oggetti, persone e animali inclusi. In genere si utilizza in accezione bellicosa ed in contesto paliesco, oppure verso la fine di una discreta sbornia, spesso verso fine luglio, quando molti miei concittadini, soprattutto giovani, non cercano altro, per concludere la serata, che di dare un bel paio di cazzotti, a chi non importa, inscenando uno di quei grandiosi psicodrammi etilici a base di onore e orgoglio cui tutti, almeno una volta nella vita, hanno assistito.
Bisi esordisce proprio citando l’episodio e sostenendo che può accadere che, involontariamente (è chiaro!) anche uno scafato giornalista possa cadere in una trappola razial-linguistica, in cui senza volerlo si discrimina qualche gruppo nazionale o etnico.
“Bene, penso, forse ha voglia davvero di discutere l’episodio”
In effetti afferma poi che con l’articolo intendeva soltanto descrivere una realtà di fatto e che non era colpa sua se il messaggio era stato recepito male. Proprio questo volevo dirgli: tu non puoi nasconderti dietro il dito della descrizione perché se in piena paranoia xenofoba butti fuori ogni giorno titoloni su rumeni, rom, moldavi ecc… che fanno questo e quello, devi sapere che alimenti una tendenza di pensiero pericolosa e purtroppo estremamente diffusa. Altrimenti è troppo comodo dire che se uno spara verso il bersaglio che gli hai indicato tu, la colpa è solo di chi spara. O come dire che è la mano che fa le seghe. Ma questo è un altro discorso.
Insomma, è il contesto che da senso alla notizia: scrivere un titolo tipo “rumeno stupra donna” non è una semplice descrizione di qualcosa, perché il titolo è scelto in funzione di quello che si ritiene sia l’interesse principale da parte dell’opinione pubblica. Il giornalista italiano medio probabilmente non è che ce l’ha con gli immigrati per forza, ma siccome crede che la gente ce l’abbia con loro pensa che un titolo come quello possa suscitare curiosità e indignazione, possa fare effetto, e quindi lo butta là. Se dunque per ragioni essenzialmente di mercato si decide di conformarsi all’opinione pubblica, le cui priorità di pensiero sono quasi sempre dettate dalle agende politiche, ecco che volenti o nolenti, destra o sinistra, sempre su luoghicomuni e stereotipi si ricade.
Confesso che secondo me questa è una teoria un po’ buonista, ma diciamo che il dibattito, sebbene ad un livello di discussione infimo, grosso modo sembrava dover ruotare intorno a questo concetto. In effetti i 4 personaggi seduti sul palco e intenti a passarsi il microfono, di tutto avevano voglia di parlare tranne che di razzismo e mezzi di comunicazione. Vergassola, contro cui non ho niente, non c’entrava nulla con il contesto ma poteva anche essere un buon personaggio, invitato per allentare un po’ la tensione e ammorbidire un dibattito che poteva farsi aspro e pesante, ma che sfortunatamente non c’è stato. Infatti, alla prima occasione buona Bisi deviava sulle domande concernenti i personaggi dello spettacolo professionalmente frequentati da Vergassola, tipo Maurizio Costanzo. Bisi pregustava già il resoconto salottiero che avrebbe fatto l'indomani delle chiacchiere e dei gossip condivisi assieme ai personaggi invitati. Il giornalista professionista (era quello che sostituiva il presidente della FNSI), un tizio che non ho capito chi fosse e che non ha detto niente di interessante (tale e quale un politico del PD), ha cercato in un paio di occasioni di discutere del vero oggetto del dibattito. A vuoto. Vergassola imperversava in monologhi, anche divertenti, ma tristemente fuori tema, mentre Bisi lo incalzava con domande tipo “Ma dicci di Maurizio Costanzo…”
Ad un certo punto, dopo che il direttore del Corrierino ha posto l’ennesima domanda:
E la Ventura?”
si è sentita una voce femminile in mezzo alla sala urlare “Ma chi se ne frega?!”
Scatta la tensione: arriva il Maestro Adriano Fontani, da anni in lotta con l’establishment senese che lo ha privato del posto di insegnante. La complicata teoria del complotto portata avanti da questa persona è interamente narrata su numerosi cartelli che l'uomo porta sempre con se, in ogni occasione pubblica a Siena, e quando può ne tappezza anche il suo pandino bianco. La teoria ancora non l’ho capita, perché i suoi manifesti scritti a mano con l'uniposca sono ricchi di slogan tipo “complotto massonico dei poteri forti Senesi” “omertà da regime stalinista” e “cospirazione con i testimoni di Geova”, ma poveri di filo logico.
Il clima si surriscalda perché il malcontento del pubblico è evidente. Moni Ovadia parla tanto e a proposito, ma di Gaza e di Israele. Sono completamente d’accordo con lui. Parla di Zero, un documentario orribile di Giulietto Chiesa, mandato in onda in Russia ma inedito in Italia. Parla di censure palesi e occulte. Ma non parla di razzismo. Il livello è basso, l’entusiasmo dei parlanti e del pubblico è sotto le scarpe. Aspetto solo il momento delle domande, so cosa dire, ho in mente di far fare al Bisi una figura di merda di quelle colossali. Una figura come un giorno di lavoro, come si suol dire, anche se non so perché. Ecco che però non c’è dibattito. Devono aver capito l’antifona. Diversa gente se n’è andata. Inizio a sbraitare. Il corriere è una merda.


Il meglio

Un tizio seduto dietro a me, alto grosso, occhi chiarissimi, una calma olimpica nei gesti e nella voce, mi appoggia la mano sul braccio e mi fa:
“Ma che è un giornale quello? Ha passato un anno a mette le foto del presidente della provincia., del candidato del Pd alle primarie e neanche una chessò? di quelli che hanno ripulito Piazza il primo dell’anno…oh io sò di sinistra eh ma quel giornale un lo posso legge…la nazione poi figuriamoci! un posso nemmeno vedè il titolo!”
“Oh perché la domanda sulla Ventura? Lui vole fa il salottino buono…”
“Si si delle cazzate e basta vole parlà”
Così si chiacchiera, con questo personaggio. E’ strana l’osservazione che ha fatto sui lavoratori del comune, ma solo per un povero coglioncello come me. La sinistra dovrebbe difendere il lavoro, la dignità del lavoro e di quello che produce, non le cose in quanto tali cioè, ma in quanto c’è stato qualcuno che s’è dato pena di farle. E a maggior ragione il lavoro pubblico, che non è un costo ma un valore, un bene comunitario. Invece si privatizza, perché gli stipendi sono costi e c'è la crisi e c'è l'Europa e che ci vuoi fare.... La sua osservazione era semplice, giusta, figlia di un buon senso che credevo non esistesse più. Invece eccolo lì.
Alla discussione si aggiunge un ometto anziano, con un cappello a tesa larga, nero, e due occhietti azzurri e vispi. Si muove un po’ lentamente, è abbastanza anziano, ma parla deciso e con voce (e parole) ferme. Dice:
“Io gli voglio scrive una lettera al Corriere perché tempo fa hanno fatto un articolo su un repubblichino morto e io non c’ho niente da ridì, ognuno ha fatto le sue scelte quand’era il tempo e s’è preso le sù responsabilità (!) ma nell’articolo ha parlato dei partigiani dicendo che… non mi ricordo che verbo ha usato ma era spregiativo… imperversavano…no com’era? Sà io sò presidente dell’Anpi di Colle e questa cosa proprio non m’è andata bene”
Penso a Veltroni. Penso al presidente dell’Anpi. Cosa hanno condiviso? Mi dice di essere dentro Sinistra Democratica e capisco la sua scelta: molto del buono che è rimasto del Partito è lì. Scambio due parole con la figlia, molto giovane, più o meno la mia età. Mi dice che vogliono rifondare La Martinella, storico giornale socialista di Colle, nato verso il 1870.
“Colle è stato il primo comune socialista d’Italia” mi dice l’uomo.
Eccoci qua. Due generazioni a confronto: una, la sua, che credeva di essersi lasciata il peggio alle spalle e una, la mia, che ha la brutta sensazione che al peggio non ci sia mai fine. Se ha ragione la sua ha torto la mia e viceversa. Ma non è importante questo. La figlia mi chiede politicamente cosa succede, cosa si fa?
Io le dico che non ho tessere ma non so perché e le dico che lei la storia ce l’ha in casa ed è giusto che la prosegua mentre io devo ancora trovare il punto di partenza.
“Giusto” dice lei ”il punto di partenza è l’Anpi.”
L’associazione dei partigiani ha cambiato statuto ed ora ha aperto anche ai giovani. Penso che mi tessero. Penso che non mi tessero. Non mi sentirei all’altezza. Loro hanno preso il mitra e non era cosa che facessero tutti. Essere antifascisti, o antifa, come si dice ora, dopo la guerra è facile. Esserlo prima e durante era altra cosa. E poi ora cosa devo fare? Ammazzare i fascistelli allevati all’ombra di mediaset con il mito del calciatore virile e forzuto? Scontrarmi? Parlare? Di cosa?
Bisi non manca mai di riportare sul Corriere di Siena i comunicati di Casa Pound, tra cui quello del lutto per Jeorg Haider: “La gioventù senese saluta Jeorg Haider” si intitolava. Tocca a noi poi andare a bere una birra al tavolo accanto a bravi giovani, non si drogano e non bestemmiano, per carità, ma purtroppo difendono il totalitarismo fascista e, tra le righe, pure quello nazista.
Guardo Bisi e mi chiedo ancora: chi è quest’uomo? Mi rendo conto solo ora che quello non è neanche del Piddì. Il direttore del quotidiano locale che dovrebbe fare riferimento alla sinistra è tutto fuorché un uomo di sinistra.
Troppi dubbi, troppe poche cose ancora so. Mi rimane ancora qualcosa da dire però. All’incontro c’era un sacco di gente e tanta è rimasta scontenta. Buon segno: vuol dire che volevano sentire qualcosa che non hanno sentito dire. C’era gente che evidentemente cercava un punto di riferimento politico e lo cercava a sinistra. Buon segno. Lo cercava all’Arci. Buon segno anche questo: bisogna prendere le istituzioni storiche e non aver paura di rifondarle e riciclarle. Fare società è l’unica ancora di salvezza secondo me. Penso che tira brutto, è vero, ma penso anche che ci sono un sacco di associazioni piccole e grandi che cercano di portare avanti messaggi, progetti, memorie, principi. Mi dico che è positivo, perché è l’inerzia mediatica e consumistica che va combattuta e ho visto un sacco di gente agguerrita negli ultimi tempi. Non bisogna cullarsi nelle false certezze ma neanche darsi per vinti. Contarsi e organizzarsi. Quello che dobbiamo fare.