
Il libro in sé non si può dire sia un congegno perfetto: la narrazione salta un po' qua e là, accelera e rallenta in modo abbastanza soggettivo, e a tratti le descrizioni sono un po' confuse. Eppure Islampunk punta il dito su una serie di questioni che secondo me superano i confini delle problematiche interne, tanto della religione islamica quanto dell'est-etica del PunkHC. Il libro sembra sia stato recepito, in generale, secondo quella che è un po' l'intenzione del suo autore: provocare e dissacrare, da buon Punk, per mostrare che dietro ogni regola rigidamente osservata, come quelle imposte dall'Islam, si muovono persone in carne ed ossa che possono, se lo vogliono, incontrarsi, stare insieme e condividere, superando ogni distinzione dottrinale, ideologica e culturale. Le recensioni del libro, stranamente, non sono molte. Qualcuno, ovviamente, ci ha visto un atto di accusa verso l'Islam ortodosso (come se ne esistesse uno soltanto) ed il tentativo americano di forzarne i limiti per trasformarlo in qualcosa di moderno, aperto, al passo con i tempi. Falso. Falsissimo. La forza del libro sta da un'altra parte.

Ciascuno dei protagonisti del libro sostiene una sua versione dell'Islam, come ho già detto: il mio personaggio preferito è Rabeya, femminista col burqa ricoperto da toppe ed adesivi di vari gruppi punk, che probabilmente cerca di sottolineare polemicamente come una società che copre ossessivamente ogni centimetro di pelle femminile non abbia un'idea della donna così diversa rispetto ad una società che altrettanto ossessivamente espone ogni centimetro di carne femminea. Ma il personaggio più importante è sicuramente Jeanghir Tabari. Jeanghir è il pilastro del racconto: è lui che organizza il megaconcerto di gruppi Taqwacore, che provengono in genere dalla California, e che occuperanno la casa dove vivono i protagonisti per tre folli giorni di ubriacature e preghiere. Il suo intento è chiaro: tutti devono potersi esprimere come musulmani e punk al contempo, magari costruendo una corrente musicale particolare: taqwacore femminista, politicizzato (ci sono gruppi come i "Vote Hezbollah"), straight-edge, oppure queer. Devono comunque riuscire a far confluire le loro differenze dentro un contenitore unico che li faccia sentire tutti fratelli. Ed è in quest'impresa che il punk e l'islam si uniscono.
Il punk e l'HC, come tutte le correnti (contro-)culturali, costruiscono specifiche identità sonore:
i fugazi non sono i wasted youth che non sono i nofx ecc... Alla varietà sonora, però, corrisponde anche una varietà di attitudini esistenziali tra loro difformi: basta pensare al sudore e al sangue delle origini in confronto alle airwalk e i suoni melodici più recenti. Eppure la cosa importante è quella di riconoscersi come fratelli, come esseri diversi ma in grado di accettarsi e di convivere insieme. Questa era l'ispirazione originaria dell'Islam: una religione cosmopolita, nata per superare i particolarismi tribali legati al sangue ed all'appartenenza locale, caratteristici di una condizione considerata barbara, primitiva, chiamata jahiliyya.

Quante volte si sente dire che il "vero" punk era questo o quello, e le altre sono soltanto copie corrotte, fichette, ecc...? Quante volte un modo di vestirsi o di farsi i capelli diventa un modo per riconoscersi, per includere qualcuno ma anche per escludere qualcun'altro? Quante volte gruppi in linea di principio tolleranti finiscono per usare alcuni loro caratteri fisici, comportamentali o etici per identificarsi e per escludere un qualche diverso, discriminandolo? Jeanghir Tabari rappresenta il contrario di tutto questo: contro il parere di tutti, il mistico punk si fa in quattro per avere al concerto anche i gruppi più intolleranti e bigotti: "Se li escludiamo facciamo come loro".
Ecco l'inaspettato punto di contatto tra punk e Islam. Due contenitori che hanno saputo offrire, sia a chi aveva tutto sia a chi non aveva niente, degli spazi per stare insieme e per condividere qualcosa. Chiunque tu sia, puoi fare la tua professione di fede, inginocchiarti e pregare gomito a gomito con i tuoi fratelli. Chiunque tu sia puoi buttarti nella mischia e pogare, oppure puoi suonare, che tu sappia farlo bene o meno. Quello che conta è che sei in mezzo ai tuoi fratelli, e loro non ti escluderanno.
Riassumendo, per concludere: al centro del libro c'è una ricerca sia personale, sia collettiva: quella di uno spazio in cui le persone possano stare insieme in nome di qualcosa che ne superi le differenze. Michael Muhammad Knight, l'autore, parla di tutto questo in modo forse un pò ingenuo ma generoso. Solleva grossi problemi, quindi, e lo trovo un libro sano, fondamentalmente, per due motivi:
- perché sbatte in faccia a tutti noi il fatto che sempre più spesso viviamo dentro nicchie di mercato spacciate per scelte esistenziali;
- perché denuncia l'ipocrisia con cui spesso ci si spaccia per tranquilloni, magari intenti a costruire e diffondere idee e modi di fare con aspirazioni universali, per poi spaccarli in testa al primo stronzo che non è d'accordo.
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